L’immagine del bimbo che alla classica domanda “che lavoro farai da grande?” risponde “posto fisso” sembra ricordare solo una comica scena del film di Checco Zalone “Quo Vado”; in realtà, i dati di un recente studio della società specializzata Swg, ripreso dalla stampa nazionale, confermano la tendenza da parte dei giovani italiani a preferire lavori caratterizzati da stabilità occupazionale più che da innovazione, varietà di attività e dinamismo.
In particolare, lo studio evidenzia un dato generale di preferenza per un lavoro stabile del 67% che deriva da percentuali diverse a seconda delle fasce d’età: 81% tra i 18 e i 24 anni, 63% tra i 25 e i 34, 64% tra i 35 e i 44 e oltre il 70% tra i 45 e i 64 anni. Tra i lavori più ambiti l’impiegato pubblico (28%), l’insegnante (12%), mentre tra quelli meno gettonati: il commerciante o artigiano in proprio (8%), il professionista (avvocato /medico/ commercialista/notaio) (8%), il ricercatore universitario (8%) e il lavoratore di cooperativa sociale educativa (8%).
Risulta chiaro che le preferenze riportate sono motivate da valutazioni individuali di tipo diverso e che un’analisi di quanto emerge dal sondaggio risulta quanto mai complessa e articolata, ma analizzando la tendenza, che rispetto alla stessa rilevazione del precedente anno registra un aumento del 13% di preferenze per il lavoro di impiegato pubblico, si possono avanzare alcune valutazioni sulla considerazione del lavoro da parte dei giovani.
In altre parole, la domanda che viene spontaneo porsi è se il lavoro sia concepito unicamente come attività indispensabile per guadagnare il necessario per vivere oppure i giovani ricerchino ancora nella professione la soddisfazione delle proprie aspirazioni e anche un modo per aumentare le capacità ed essere maggiormente considerati a livello di sistema sociale.
La preferenza per il “posto fisso” che emerge dallo studio sembrerebbe derivare dal fatto che dopo anni nei quali nella nostra organizzazione del lavoro era prevalente la spinta verso un sistema di tipo statunitense, nel quale i giovani venivano indirizzati a lavori precari, ma con la possibilità di potersi conquistare con le proprie capacità e l’impegno posizioni di soddisfazione, la maggioranza sia arrivata alla conclusione che sia preferibile “accontentarsi” di un lavoro sicuro, anche se noioso e privo di prospettive, piuttosto che esporsi all’alea della possibile disoccupazione, accompagnata dalle conseguenti limitazioni a livello di scelte personali e familiari.
D’altra parte, per un giovane che si affaccia al mondo del lavoro, avere la prospettiva di un’occupazione non soddisfacente che si protrae per decenni dovrebbe apparire particolarmente mortificante e indurre a cercare di prepararsi attraverso gli strumenti della formazione per ambire a gratificazioni lavorative ben più elevate. Il tutto, purtroppo, si traduce in una tendenza al ribasso rispetto alla promozione dei talenti dei giovani e quindi anche rispetto alla possibilità di sviluppo sociale e produttivo del Paese e in una diffusa incertezza sulle scelte formative e occupazionali dei giovani.
Far tornare nei giovani la fiducia rispetto ai valori del lavoro e alla possibilità di condurre un’esistenza nella quale la propria professione possa costituire un importante elemento di gratificazione personale appare, quindi, una necessità inderogabile che richiede risposte concrete che coinvolgono attori diversi.
Una delle strade percorribili può essere il pensare a sistemi formativi che si basino sull’acquisizione di competenze realmente spendibili in ambito professionale. La valorizzazione del “saper fare” come elemento di gratificazione e di acquisizione di fiducia in un giovane, così come lo sviluppo delle attitudini individuali sono elementi importantissimi in questo senso, così come è importante lavorare a un sistema formativo razionalizzato nell’organizzazione e integrato con il sistema socio-economico territoriale, che riesca a orientare in modo efficace le scelte di famiglie e adolescenti verso professioni che consentano di trovare occupazione e quindi stabilità.
Esistono esperienze nelle quali tali azioni sono state messe in atto, pur con i limiti della complessità del sistema, e hanno ottenuto risultati soddisfacenti. Portare a sistema le “buone pratiche” e le sperimentazioni è realmente un’azione impegnativa che deve vincere interessi e particolarismi, ma forse è l’unica possibile.