Entro sette anni, nel lontano 2025, i robot svolgeranno più di metà dei lavori attualmente esistenti, eppure, si pensa, che nessuno rimarrà disoccupato. A rassicurare il mercato (?) sono le proiezioni raccolte in uno studio del World Economic Forum che prevede in cinque anni la creazione di ben 133 milioni di nuove posizioni lavorative, a fronte dell’automazione di 75 milioni di mansioni. Un saldo netto, insomma, di 58 milioni di nuovi posti, più specializzati, a patto però che gli Stati investano (finalmente) nella formazione dei lavoratori.
L’evoluzione del mercato del lavoro porterà così con sé una grande espansione dei ruoli legati all’information technology. I più richiesti, secondo le proiezioni, saranno gli esperti di analisi dei dati e gli scienziati, seguiti da esperti in intelligenza artificiale e manager gestionali. A seguire ci saranno gli sviluppatori di software e i professionisti dei settori vendite e marketing.
A scomparire invece saranno 75 milioni di posti di lavoro, a partire dagli addetti all’inserimento manuale dei dati in sistemi informatici e a chi svolge compiti amministrativi come, non lo diciamo ai consulenti del lavoro e a chi lavora negli uffici del personale, la gestione delle buste paga e dei libri contabili. Mansioni che si ritengono di facile apprendimento per le macchine che, in un contesto di scalabilità dei costi, più lavorano e meno costano.
In termini poi di ore di lavoro, oggi il rapporto uomo-macchina è di 71 a 29. Ovvero, solo il 29 per cento del lavoro complessivo è, ad oggi, svolto da robot, mentre il 71 per cento è ancora in mano a esseri umani. Ma secondo le previsioni presentate nei giorni scorsi, entro il 2025 questa proporzione cambierà sensibilmente e ben il 52 per cento delle ore di lavoro saranno svolte da sistemi automatizzati.
In questo quadro, insomma, il dibattito tutto italiano su articolo 18, Jobs Act renziano e Decreto dignità giallo-verde sembra qualcosa che appartiene, con il massimo rispetto, alla storia. Le sfide del presente, e del futuro, stanno altrove. Questo presume, però, un ripensamento complessivo in una società fondamentalmente fordista nell’immaginare i tempi, e gli spazi, della vita e delle città.
Tutto questo, sicuramente, provoca, e continuerà a farlo, paure, anche irrazionali, nelle persone specialmente quelle più deboli e a rischio di esclusione sociale. Alla politica spetta la necessità di confrontarcisi e governarle senza cavalcarle, ma, allo stesso tempo, senza ignorarle ritenendole irragionevoli e immotivate. Perché la coesione sociale regga servirà, probabilmente, ad esempio, affiancare alla strategia fabbrica 4.0 quella welfare 4.0.