Ancora una volta in Olanda è prevalsa la paura: la paura di soffrire e quella di far soffrire, per cui i medici hanno posto fine alla vita di un neonato, venuto alla luce con una grave patologia neurologica. Una malattia rara, per cui non ci sono ancora terapie efficaci; mentre c’era il rischio che andasse incontro ad una grave forma di disabilità, che avrebbe compromesso la sua autonomia. E nel dubbio hanno posto fine alla sua vita, senza tener conto dei continui progressi a cui la scienza ci fa assistere ogni giorno.
Basta pensare alla scoperta fatta pochi mesi fa di una terapia per la Sma, la malattia del motoneurone, che tanti problemi pone ai bambini che ne sono affetti e ovviamente alle loro famiglie. Una scoperta che cambia radicalmente la vita di questi bambini e modifica la storia naturale di una malattia che fino a poco tempo fa creava forme di disabilità gravissime, anche sotto il profilo della mancata autonomia. Oggi la Sma si può curare; ma anche altre forme di distrofia muscolare che fino a pochi anni fa avevano un orizzonte di vita che non consentiva di giungere all’adolescenza, oggi non solo hanno allungato moltissimo la vita di questi ragazzi, ma soprattutto hanno permesso loro di viverla in modo nuovo, pieno di affetto e di esperienze, concrete e interessanti. Tutto questo non sarà possibile per il piccolo olandese, a cui il timore della sofferenza ha tolto la gioia di una vita in cui la speranza fa sempre da stimolo anche per la ricerca scientifica e la solidarietà tra le famiglie. Sono i genitori infatti che, toccati dalla sofferenza e dalle difficoltà dei propri figli, ne colgono contemporaneamente anche la voglia di vivere e sollecitano i medici e gli scienziati a cercare sempre nuove soluzioni, nuovi farmaci adatti.
Le malattie rare e i farmaci orfani sono davvero parte integrante della nuova sfida con cui la scienza si misura ogni giorno di più. Le malattie rare sono oltre 7mila, moltissime riguardano proprio lo sviluppo neurologico del bambino, e pur essendo rari i malati, le loro malattie sono tutt’altro che rare. Ma nessuno vuole sopprimere i bambini che nascono con una malattia rara, nel timore che soffrano troppo. I genitori sanno bene che accanto alla sofferenza questi bambini fanno ogni giorno, come tutti gli altri bambini, mille altre scoperte che fanno apprezzare e amare la vita. Riuniti in associazione questi genitori desiderano soprattutto aiutarli a guarire e per questo sollecitano la ricerca a fare presto per venire incontro ai loro bisogni. Ma quei medici in Olanda invece non hanno avuto dubbi: meglio farlo morire mentre era ancora in culla; non farlo soffrire, ma non fargli neppure sperimentare il calore dell’affetto dei suoi genitori, i giochi infantili e mille altre cose in attesa di una svolta positiva per la sua malattia. Hanno scelto la via irreversibile della morte.
La giustificazione dei fautori dell’eutanasia si basa su pochi punti chiave: la libertà e la consapevolezza del soggetto che decide di por fine alla propria vita, ritenuta insopportabile a causa del dolore, fisico e morale. Secondo loro il soggetto sperimenta la perdita di senso e di significato della sua vita e teme di essere un peso eccessivo per la propria famiglia. Ma nessuna di queste condizioni si dava nel caso del bambino olandese e la sua morte appare invece come un caso di infanticidio. Il bambino avrebbe avuto una prospettiva di vita di circa 10 anni; nessuno ha chiesto il suo consenso prima di farlo morire, e forse nessuno ha spiegato ai suoi genitori, con la delicatezza e la chiarezza necessarie, che in dieci anni la scienza e la tecnica possono fare molti progressi. E forse anche la grave patologia di cui soffriva il bimbo avrebbe potuto trovare una risposta adeguata. Si è posto fine alla speranza, sottovalutando la gioia di vivere che ogni vita porta con sé. Come accade quando si pone fine alla vita di un bambino Down, senza neppure farlo nascere. Anche in questo caso l’aborto viene giustificato con la paura di soffrire e di far soffrire.
Per molte persone sembra più facile confrontarsi con il mistero della morte, che pone un punto definitivo alla nostra vita e a quella delle persone care, piuttosto che affrontare il mistero del dolore. Si chiede di morire perché in determinate circostanze non si vuole più soffrire. E la morte diventa liberazione; proprio perché pone un punto fermo, uno stop definitivo alla vita, che appare come una esperienza troppo dolorosa per sopportarne ulteriormente il peso. Il morire mostra una valenza terapeutica, che apparentemente attenua la drammatica radicalità dell’esperienza della fine. Il dolore non c’è più, perché la persona non c’è più: una soluzione realmente paradossale ed eticamente inaccettabile. E proprio per evitare che le persone, stremate da un dolore difficile controllabile, imboccassero questo sentiero così stretto da essere irreversibile, abbiamo voluto nel marzo 2010 la legge 38: “Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore”. Fu la nostra risposta a chi per eliminare il dolore voleva eliminare la vita.