Senza amici cosa resta?

Le ultime statistiche sui suicidi economici presentate dalla Link Campus University dicono che il primato va al Nordest e non riguarda solo gli imprenditori. SALVATORE ABBRUZZESE

Le statistiche sui suicidi lasciano affiorare sempre un momento di dolore e di tristezza. Per quanto i percorsi che portano ad un simile gesto siano legati alla biografia del singolo e non alla sua posizione sociale, per quanto la sociologia non c’entri e non possa che cedere il posto alla psicologia, tuttavia l’amaro resta e la domanda rimane aperta. Del resto l’aumento dei suicidi per motivi economici chiama sicuramente in causa la crisi occupazionale, la stretta creditizia, l’immobilismo delle istituzioni che sembrano segnalarsi solo per la loro lentezza e, talvolta, per la loro inconcludenza: altrettanti fattori sociali, nei quali il soggetto c’entra solo come vittima.

Ma c’è anche qualcosa di più. Dalle ultime statistiche sui suicidi economici, presentate dall’Osservatorio Suicidi della Link Campus University, si osserva come un tale gesto non colpisca più solo gli imprenditori, ma cominci ad interessare anche i disoccupati, i lavoratori nelle aziende, rilevando così un percorso più vasto e articolato. Non si tratta infatti solamente di fallimento economico, ma anche di un dissesto più generale, quello che riguarda il progetto di vita del soggetto e la propria posizione nel mondo. Se il suicidio è l’esito finale di una spirale depressiva, non si può dimenticare come quest’ultima sia “una malattia della responsabilità”, provenga cioè dal carico di obblighi ai quali la persona sente di dover far fronte. È il fallimento di un tale percorso, del quale il singolo si sente responsabile e il cui peso gli appare insostenibile, a generare, almeno in questi casi, la scelta più irreversibile che esista. 

Certamente un simile gesto dovrebbe poter incontrare approdi e sostegni tali da bloccarlo. I suicidi impongono infatti una chiave di lettura che rovescia la posizione tra individuo e società. Se quest’ultima non “spinge” al suicidio, che resta sempre l’esito di una decisione individuale, essa comunque dovrebbe fermarlo; se non ne costituisce la causa, nondimeno è responsabile della protezione mancata. È la società infatti che dovrebbe avere al proprio interno non solo le agenzie di sostegno alle imprese ed ai singoli ma anche (e forse soprattutto) quel tessuto di relazioni sociali forti e significative che aiutano il soggetto a non sentirsi solo. Sono quindi le società locali, i mondi vitali della vita quotidiana, le reti e le appartenenze significative, strutturate da valori di solidarietà sostanziali che dovrebbero aiutare a non smarrirsi ed a trovare altre e più significative ragioni per vivere, e che invece si rivelano scarsamente presenti ed efficaci.

Eppure, anche qui, per quanto l’assenza o la scarsa presenza di reti e appartenenze significative giochi un ruolo nel mancato contrasto ad una tale scelta senza ritorno, il discorso risulta ancora incompleto. Il Nord-Est, dove i tassi di suicidio economico sembrano essere più rilevanti che altrove, è anche l’area nella quale esistono reti di solidarietà assolutamente invidiabili. Non c’è paese, non c’è città né quartiere che non presenti delle realtà meravigliose di volontariato e di impegno civile. Qualsiasi analisi non può aggirare un’evidenza così manifesta. Una società a “maglie strette”, efficace e solidale, esiste ed è pienamente e meravigliosamente funzionante. Eppure non basta.

Occorre allora far emergere un altro protagonista che è all’opera. Se le reti di solidarietà non riescono nel loro intento, se non riesce loro di farsi vedere ed essere operative, non è tanto per la loro incapacità quanto perché sono ostacolate da un’ideologia diffusa – intesa qui come senso comune e stereotipo condiviso – accettata e sottoscritta proprio da chi ne pagherà le conseguenze ponendo fine ai suoi giorni. L’ideologia in questione, lo stereotipo banale e letale, è quello in virtù della quale ciascuno, se da un lato deve assumersi le proprie responsabilità, dall’altro non deve mai dover dipendere dagli altri. Deve sempre saper contare sulle sue sole forze, per potersi evitare qualsiasi vincolo, qualsiasi dipendenza. In altri termini, siamo sempre davanti al primato dell’individualismo, ed al prevalere di questo sulla relazione significativa. Il tarlo di volercela fare da soli ed a tutti i costi mette fuori gioco le potenziali risorse comunitarie, impedisce di andare a cercarle, le depotenzia e le squalifica nelle loro possibilità. 

Ma, ovviamente, anche un simile tarlo non si insedia a caso. La riflessione conduce lontano: occorre infatti che si sia andati via dalla casa del Padre, che si sia scelto di giocarsi la propria vita nel mondo da soli. La secolarizzazione della coscienza, intesa cui come il venir meno di un legame qualificato con il divino nel foro della propria esistenza interiore, costituisce la premessa per una vita “in solitaria” una volta che si è dinanzi ad un benessere e ad una realizzazione che sembrano essere a portata di mano. 

Nel gesto estremo del suicidio tutto si tiene: un mercato che tradisce, le istituzioni che non ci sono, ma anche una gestione solitaria della propria esistenza, dove ci si impone di fare tutto da soli. Non è un caso se, scolorendosi l’immagine di Dio, perdano consistenza anche quelle degli altri. La premessa mortifera che attesta che l’uomo, in realtà e contrariamente a quanto l’esperienza ci insegna, resti comunque un’isola e finisca sempre con l’essere solo, costituisce il vero lascito della modernità a tutti noi, la mela avvelenata che ci ha lasciato in eredità.   

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