Nove anni di silenzi e menzogne, sul caso Stefano Cucchi. Come si può mentire per nove anni? Come si può fare quadrato per nascondere la verità, per rifiutare le responsabilità, e le conseguenze ovvie, e per un malridotto orgoglio della squadra cui si appartiene, come se l’Arma dei carabinieri fosse una loggia, una corporazione, e non l’esercito italiano a servizio della comunità.
La morte del ragioniere romano, sì, dello sbandato, del drogato Cucchi, è motivo di scandalo e segno di contraddizione, per tutti. Per chi crede nella giustizia riparativa, e restitutiva di una dignità che purtroppo il carcere nega; per chi ragiona sull’inutilità del regime carcerario per i tossici (gli spacciatori spesso sono tossici, i tossici d’alto bordo di solito non li arrestano per spaccio); per chi aborre l’uso della violenza soprattutto quando chi la adopera veste una divisa dello Stato; per chi ama i carabinieri, e si sente offeso dalle reticenze e dalla violenza che di tanto in tanto vengono a galla, sempre tardi, sempre con il coinvolgimento ancor più colpevole di capi e capetti. Per chi considera ogni uomo, anche chi commette reati (e non si trattava di reati gravi, nel caso di Stefano) una persona, da rispettare. Per chi in questi anni ha mal sopportato l’insistenza della sorella, come se si trattasse di una capopopolo pronta a sfruttare la morte del fratello per la notorietà o peggio, per un’ideologia. Come si sbaglia a giudicare, lasciando spazio ai sentimenti peggiori. Per chi ha cercato di non vedere quel volto scheletrico e tumefatto, sbandierato in tante manifestazioni come uno schiaffo alle nostre coscienze perbene. Il “se la sarà cercata” che alberga nel fondo oscuro di noi ci porta a scartare i più fragili, che sia il bimbo bullizzato a scuola o la ragazza irretita dal suo capo al lavoro: è un pensiero sottile e pervasivo che ci rende sibilanti veleno e disumani. Per chi non vuol rassegnarsi a considerare le forze dell’ordine dei picchiatori seriali, dato che chi lo dice in genere è un picchiatore seriale, ma non può sopportare che la verità venga calpestata sistematicamente, con sprezzo del dolore e della trasparenza che è dovuta ai cittadini che quelle forze dell’ordine mantengono, stimano, considerano preziose.
Stefano è morto in un modo orrendo. Poco importa che fosse già malato, affamato, lasciato solo. Bisognava averne cura, come per tutti i deboli, nel corpo e nell’anima. E’ stato picchiato selvaggiamente, e Dio solo sa cosa può essere scattato nella testa frustrata e perversa di quei carabinieri. Che preparazione, che equilibrio, che vocazione potevano mai aver avuto quei tali, nello scegliere un così alto compito. E’ stato picchiato, e l’evidenza è stata nascosta, maldestramente, coprendo i colpevoli, se quelli individuati nel colpo di scena durante il processo sono i soli coinvolti, se chi accusa, solo adesso, non ha altro da coprire. Qualcuno dovrà spiegare perché una notazione di servizio compilata dopo i fatti osservati è sparita nel nulla, perché un malmenato ricoverato in un ospedale pubblico è stato dimenticato, e vietato ai familiari di visitarlo, perché tutte le leggi dell’umana pietà sono saltate per lui, che manco per Totò Riina.
La giustizia arriva per tutti, si ripete in queste ore. Ho poca fiducia nella giustizia umana, che non è mai giusta in assoluto. La giustizia arriva tardi, ma per una volta, non per sua colpa. La giustizia non è entità astratta, ma dipende dalla volontà degli uomini. E ci vuol tempo, a volte infinito, perché gli uomini cedano, e abbattano i muri dell’omertà. Due carabinieri l’hanno fatto. Chi ha denunciato i colleghi, rischiando, e il carabiniere che ieri ha trovato la forza di dire quello che aveva visto davvero, se ha detto tutto. Ci avete pensato? Nessuno di noi ricorda cos’è capitato un giorno e un’ora di nove anni fa, a meno che si tratti di un fatto sconvolgente, che ha colpito duramente la nostra coscienza. Il bene e il male sono dentro di noi, non si possono tacitare in eterno.
Sono questi due carabinieri, se sarà confermata la loro versione, a salvare l’onore dell’Arma. Per chi è stato zitto, o indifferente, la complicità sarà un disonore a vita, anche se sfuggiranno alle pene. Vale anche per gli apparati dello Stato la severità che giustamente, di questi tempi, è pretesa a gran voce dagli apparati ecclesiastici. Suggerirei ai vertici dell’Arma il metodo Bergoglio.