Italo Svevo è l’autore che Giuseppe Pontiggia (1934-2003) studiò maggiormente negli anni giovanili, a partire dalla sua tesi di laurea, discussa nel 1959 all’Università Cattolica di Milano, ora proposta per la prima volta in volume: La lente di Svevo, a cura di Daniela Marcheschi (EDB, 2018).
L’università fu per Pontiggia occasione di importanti incontri culturali, in primis con Luciano Anceschi e Mario Apollonio: con il primo, nel 1956, Pontiggia avrebbe fondato Il Verri, rivista intenta a combattere i residui della cultura ermetica da un lato e neorealista dall’altro. Il grande accademico Apollonio, invece, fu per Pontiggia il relatore di tesi, e accettò di buon grado che l’allievo trattasse il tema La tecnica narrativa di Italo Svevo. Pontiggia era infatti rimasto molto incuriosito dal parallelo fra Pirandello e Svevo proposto da Luciano Nicastro nell’opera Il Novecento, terzo volume della Storia della letteratura italiana curata da Francesco Flora fra il 1940 e il 1942 per Mondadori. Del resto, un’identificazione fra giovane studioso e oggetto degli studi era molto facile: Svevo stesso aveva una buona pratica dell’ambiente della banca, dato che aveva lavorato per vari anni (dal 1880 al 1899) alla filiale triestina della Banca Union di Vienna, e, parallelamente aveva frequentato in modo assiduo le biblioteche, per leggere soprattutto filosofi come Nietzsche e i classici italiani e gli autori francesi dell’Ottocento e Novecento che avevano rivoluzionato il genere del romanzo.
Pontiggia si laureò nel 1959, lo stesso anno in cui pubblicava La morte in banca. Cinque racconti e un romanzo breve, benché il suo esordio narrativo fosse già avvenuto proprio nel Verri, nel cui primo numero, nel 1958, era apparso il racconto La nomina dei procuratori, poi raccolto, con Sera, Mancino!, Il pazzo e I colori della vita proprio nel volume La morte in banca. E già in questa composita opera narrativa erano evidenti quelle doti formali di cui Giuseppe Pontiggia avrebbe dato prova anche nelle opere successive: l’attenzione ai valori della parola, alla strutturazione narrativa e alla sintassi, la chiarezza e insieme la laconicità allusiva, la sottile ironia.
A quasi sessant’anni di distanza, dunque, è utile rileggere anche la tesi di laurea di Pontiggia: il testo, infatti, al di là delle finalità accademiche per cui nacque, e al netto di certi usi lessicali, come nota la curatrice Daniela Marcheschi, imputabili all’epoca o alla giovinezza dell’autore e che oggi suonano letterari e forse anche un poco duri (pensiamo a “onde” con valore di congiunzione), è ancora molto utile. Il lettore, infatti, non può fare a meno di restare colpito dalla qualità di questa prosa, così limpida e chiara, di un autore solo venticinquenne, dal modo in cui argomenta e dal vigore analitico del suo lavoro.
Colpisce, in modo particolare, la grande sicurezza con cui “il candidato Pontiggia” individua e domina le fonti critiche, e poco importa se oggi useremmo un linguaggio tecnico-critico leggermente diverso, e parleremmo quindi di fabula e intreccio, di narratore esterno e interno, di sequenze dialogate, narrative, descrittive. Nei sei capitoli della tesi (Il punto di vista; Il tempo; I personaggi; Il paesaggio; Il dialogo; Il linguaggio) Pontiggia individua e analizza con acribia molti, se non tutti, i modi e gli strumenti più efficaci di cui Svevo si è servito per costruire le sue narrazioni.
Il maggior sostegno tecnico gli viene da un saggio, ancora oggi godibilissimo, oltre che utile ed efficace, Tecnica del romanzo novecentesco, di Joseph Warren Beach (edito per la prima volta a New York nel 1932, ma tradotto in italiano da A. Camerino e C. Izzo per Bompiani nel 1948). Proprio grazie a questa impalcatura critica, Pontiggia coglie subito, nel primo capitolo del suo lavoro, un elemento fondamentale del punto di vista di Svevo: scrive infatti, con un attacco che ancora colpisce per la fermezza e autorevolezza del tono, ponendosi senza preamboli inutili e pesanti, che “Il punto di vista del protagonista rappresenta nell’opera sveviana l’unica sorgente della narrazione: narrazione che definiremmo perciò drammatica, in quella particolare accezione che il Beach attribuisce all’aggettivo. Il Beach pone questa differenza fra romanzo e dramma: ‘Nel romanzo l’azione è descritta; nel dramma si svolge sotto i nostri occhi’ (…) Onde il romanziere drammatico sarà colui che, cercando di esaminare questa differenza, mirerà alla ‘presentazione diretta’ e a ‘dare al lettore il senso di essere presente sul luogo e al tempo della narrazione'”.
Da questo lavoro di testi, ricaviamo, una volta ancora, la considerazione che studiare con profitto la tecnica di un autore, entrare nella sua officina creativa con cognizione di causa, smontarne la prosa nei suoi componenti primi, significa arrivare a padroneggiare al meglio tutti gli strumenti della narrazione: solo in questo modo ci si può dotare dell’armamentario fondamentale per affrontare con consapevolezza e in modo mentalmente attrezzato la carriera di scrittore. E queste pagine mostrano un Pontiggia che era già scrittore formato nel momento in cui si apprestava a discutere la sua tesi di laurea.