Sembra che abbia vinto il “partito dello sforamento” e che il Def preveda un rapporto deficit/Pil del 2,4 per cento. Reddito di cittadinanza, superamento della legge Fornero, condono: in attesa del giudizio dell’Europa prevalgono misure redistributive che non si preoccupano né della reazione dei mercati, né di come si possa creare sviluppo. Come in una riedizione della favola della cicala e la formica di La Fontaine parole come investimenti, infrastrutture, sviluppo sono bandite, nell’estate del nostro governo che sembra non paventare l’arrivo dell’inverno. In particolare sembra completamente dimenticato il problema dello sviluppo del Meridione. Realmente i cittadini meridionali hanno bisogno solo di misure semi-assistenziali utili a mantenere un consenso elettorale, ma incapaci di curare il cancro del sottosviluppo?
Si rischia così di perdere forse definitivamente un altro appuntamento per rendere il Sud ciò che potrebbe essere: il volano di una ripresa produttiva per tutto il paese.
Un po’ di storia economica recente serve a capire il problema.
Nel periodo della ricostruzione post-bellica, fino agli anni Settanta, le forze popolari, per quanto divise su mille cose, avevano condiviso l’impegno per lo sviluppo, anche in uno spirito di rivalsa verso chi aveva concepito un’Italia centralistica e non federale, come sarebbe stato nelle sue corde di paese con identità territoriali radicate e differenziate, ricco della capacità di iniziativa delle popolazioni locali.
A fine anni 70 sia il mondo comunista che quello cattolico entrano in una profonda crisi ideale. Il Pci si accorge di non controllare più le masse e la Dc si rende conto che l’apparato costruito ha perso il suo spirito ideale. Questa situazione produce un secondo affossamento del Sud che contribuisce al passaggio da un progetto unitario di sviluppo (con la Cassa del Mezzogiorno) a una frammentarietà improduttiva. La spesa pubblica diventa spesa clientelare. Viene meno, anche come concezione di lungo periodo, la pratica delle partecipazioni statali e dell’economia mista, cioè il cedimento progressivo al neoliberismo. Con il tempo si sviluppa anche una forma di populismo le cui rappresentanze perdono una visione di bene comune.
La Seconda Repubblica, invece che focalizzare e correggere questa deriva, prendendo l’avvio da un giustizialismo senza progetto, contribuisce all’eclissarsi dei partiti come espressione di realtà ideali e al venir meno del protagonismo delle realtà popolari meridionali.
Nello stesso tempo, diventa impopolare l’idea che lo Stato intervenga in economia e calano gli investimenti pubblici. Dopo le cattedrali nel deserto, il Sud è rimasto senza veri investimenti ad esempio in infrastrutture: reti autostradale e ferroviaria all’altezza di un Paese moderno non sono mai state terminate.
Con la globalizzazione le fasce deboli della popolazione del Sud diventano ancora più deboli. Quello avrebbe dovuto essere il momento in cui, come nel ’45, si sarebbe dovuto investire, costruire, cambiare. L’equivoco è stato pensare che un mercato globale avrebbe aiutato tutti, anche chi era più in difficoltà. Sappiamo che è successo il contrario. E piano piano non si è parlato più del Sud.
Girando il Meridione si trovano tante piccole e medie imprese efficienti e produttive, tante idee ed energie pronte per ripartire. L’ultimo Rapporto sulla sussidiarietà, dedicato proprio al Sud, documenta la presenza di una creatività imprenditoriale anche all’avanguardia in diversi settori e mostra come la nuova centralità del Mediterraneo nel commercio mondiale può essere una occasione unica per dar vigore a questa classe imprenditoriale.
Investimenti al Sud in porti, ferrovie, scuole, università, turismo ambiente, agricoltura moderna, energia rinnovabile e non, potrebbe invertire la tendenza per tanti giovani e realtà profit e non profit.
Ma forse questo non interessa nell’illusione colpevole della decrescita felice e nella consapevolezza irresponsabile che le mance pagano subito, mentre gli investimenti non sono merce spendibile elettoralmente nel breve periodo. Sono tornati i Borboni.