Bogotá è un oceano sterminato di più di otto milioni di abitanti: più o meno come sei città di Milano, incastrate l’una nell’altra nel medesimo spazio ristretto. La sua ragnatela fittissima di strade si è dilatata a macchia d’olio, con ritmo accelerato nel più recente passato, su un vasto altipiano a 2600 metri di altezza, a partire dal nucleo più antico inaugurato nel 1538 dai conquistatori spagnoli, ai piedi del costone boscoso e ricco di acque da cui oggi troneggia, al di sopra della conca invasa dall’abnorme metropoli, il santuario di Monserrate, con la sua veneratissima statua del Señor Caído: il Cristo pietoso caduto lungo la via del Calvario, meta ogni anno della visita di migliaia di pellegrini.
Proprio a poche centinaia di metri dal centro originario della capitale colombiana, dove inizia l’erta salita che conduce a Monserrate, sorge la chiesa barocca di Nuestra Señora de las Santas Aguas. Un tempo, fino all’inizio dell’Ottocento, la chiesa era innestata in un complesso conventuale abitato dai frati domenicani. E difatti sono soprattutto i santi della tradizione dei Predicatori a essere immortalati nelle nicchie del grande retablo di legno scolpito e dorato che chiude la parete di fondo della chiesa, alle spalle dell’altare maggiore. Oggi l’edificio non è più adibito a convento. Ma la chiesa sussiste tuttora, trasformata nel perno di una parrocchia servita da sacerdoti secolari. Il legame con la tradizione di matrice domenicana resta in ogni caso inciso nel modo più eloquente nel soggetto del dipinto collocato nella posizione centrale di maggior prestigio del retablo: si tratta di una tavola dedicata alla celebrazione della Madonna del Rosario.
Soffermiamoci su questo dettaglio: la devozione del Rosario, come si dovrebbe sapere, è una “invenzione” della religiosità centroeuropea del XV secolo, parallela alla fioritura dei grandi santuari mariani dell’Occidente cristiano, al decollo del Rinascimento e al dilagare del cristomimetismo dei Sacri Monti e della moderna devozione eucaristica, e fu l’ordine dei domenicani a farsene veicolo di diffusione in ogni contrada della cristianità. Da allora, il Rosario divenne uno degli emblemi fondamentali dei seguaci di san Domenico. Dalle terre del Vecchio Mondo lo vediamo trapiantato al cuore di uno dei nuovi luoghi di culto innalzati dagli eredi che, ormai in piena età moderna, ne proseguivano la vocazione apostolica e missionaria attraverso l’evangelizzazione dei popoli dell’America Latina.
A Las Aguas, la Vergine è ritratta in trono, alloggiata sopra una grande falce di luna che allude alla sua concezione immacolata, con il Bambino Gesù ritto in piedi che cerca appoggio tenendosi con una mano al collo della Madre, mentre con l’altra impugna già la croce a cui è destinato. Dal lato opposto, la mano libera di Maria porge la corona del rosario guardando pietosa verso il basso, dove alcuni santi a lei devoti vengono schierati in rappresentanza dell’intero popolo dei fedeli. Altre corone del rosario sono offerte in dono dagli angeli che sovrastano il capo di Maria e di Gesù, sorreggendo anche una corona puntellata di gemme che chiude, in alto, l’ovale luminoso al centro del quale la Madre di Cristo ostenta la sua celeste regalità.
È interessante prestare attenzione alla fisionomia dei santi in preghiera che recano omaggio al primato di Maria. Sono sant’Ignazio, lo spagnolo fondatore del grande ordine della Compagnia di Gesù, e san Francesco Saverio (o meglio: san Francisco de Javier), un altro spagnolo che fu tra i primi gesuiti, pioniere della diffusione del cristianesimo nel continente asiatico, canonizzato nel 1622 esattamente insieme ad Ignazio, e venerato come patrono delle missioni in età moderna. Non sono santi domenicani (il frazionamento dell’universo religioso cattolico non era brutalmente fazioso al suo interno, ma alleggerito da margini notevoli di pluralismo eclettico). Però sono sempre santi spagnoli, importati dai colonizzatori venuti da Oltremare, ed è impressionante riscontrare come questa origine esotica non abbia per nulla indebolito la loro capacità di porsi come punti di richiamo per l’intero mondo dei credenti della Nuova Cristianità extraeuropea: un mondo eterogeneo, diviso da forti spaccature al suo interno, fatto di nativi sradicati dalle loro forme di vita arcaiche e immobiliste, di coloni affluiti in particolare dai domini iberici, di schiavi africani e di altri paesi oggetto di conquista rapinatrice, di creoli e meticci frutto di incroci lungo svariate direzioni.
Per tutti, al di sopra delle diversità di origine, di storia, di provenienza, i simboli comuni della fede propagandata dalla Chiesa missionaria dei dominatori spagnoli sono diventati il cemento di una nuova identità, radicata nell’inizio di una nuova fase storica di sviluppo, innestata nella storia globale del pianeta. Questa stessa funzione di potente calamita di raccordo, di forza riunificatrice che riconnetteva i frammenti di un corpo sociale disgregato, la svolgeva, in modo ancora più diretto e incisivo, l’invito rivolto dai predicatori missionari a raccogliersi sotto il mantello protettivo della Vergine mediatrice per eccellenza. I suoi devoti la invocavano sgranando le loro povere corone, senza bisogno di nutrire la pretesa di lanciarsi verso forme di religiosità più esigenti ed élitarie.
Emerge in questa prospettiva la natura tipicamente “inclusiva” del dinamismo universalista della missione su scala planetaria dei primi tempi moderni. I mattoni costitutivi dell’edificio della cristianità restavano, in primo luogo, quelli dell’incubatrice europea: qui erano stati modellati il suo sapere teologico, il suo catechismo e la sua liturgia; da qui venivano i modelli dell’espressione musicale della devozione e i codici della raffigurazione iconografica del suo patrimonio di storie, di dogmi e di credenze. Ma poi il Cristo e la figura della Vergine potevano anche assumere i tratti fisiognomici del pubblico a cui si rivolgevano, e adottare, in Oriente, gli occhi a mandorla. Così come i predicatori alla Vieira, nel Brasile del Seicento, traducevano il distillato della tradizione umanistico-cristiana dell’Occidente in un insegnamento che plasmava la mentalità delle popolazioni locali, o i missionari musicisti venuti dalla Spagna, dalle terre italiane o dalla Germania asburgica insegnavano agli indios il canto polifonico latino, nel medesimo momento in cui si lasciavano contagiare dagli stili di espressione musicale degli amerindi delle civiltà e delle etnie pre-coloniali, al sud come al nord del Nuovo Mondo, per creare una nuova musica che era anche sincretica, a sua volta meticciata, non tutta passivamente ricalcata sul paradigma inossidabile della cultura dominante delle patrie di origine. I medesimi contenuti, per dirla altrimenti, si potevano caricare di echi e significati molteplici: l’unitarietà di fondo si calava nella varietà profonda delle forme e dei linguaggi, la sintesi restava fortemente plurale. Solo così si produceva una reale incarnazione del cristianesimo affluito da mondi lontani, dentro contesti che si prestavano ad accoglierlo, gli facevano spazio, e per ciò stesso cominciavano a esserne rimodellati a fondo.
Un microindizio di conferma lo possiamo ricavare, di nuovo, dal caso di Las Aguas, e riguarda la foggia materiale delle corone del rosario dipinte nella tavola mariana al centro del suo retablo. Le corone tardoseicentesche della chiesa ispanizzata di Bogotá terminano con una croce chiusa da pennacchi colorati di rosso su ognuno dei bracci che si staccano dalla collana di grani. Siamo in piena zona equatoriale, a migliaia e migliaia di chilometri di distanza dai luoghi in cui la preghiera del rosario aveva preso la sua forma ordinata. Ma i pennacchi colorati di Las Aguas ricordano da vicino quelli che decorano le corone appese alle pareti nel famoso ritratto dei coniugi Arnolfini del fiammingo Jan van Eyck, del 1434, oppure la corona che cinge il capo di Maria nella Madonna del libro con il Bambino Gesù del lombardo Vincenzo Foppa (1475 circa). Senza queste potenti continuità sotterranee, fuori dall’incrocio di questo genere di prestiti a enorme distanza, la vicenda plurisecolare dell’incarnazione latinoamericana del cristianesimo europeo non avrebbe potuto trovare spianate davanti a sé le strade per aprirsi una breccia oltre il muro della differenza culturale. I conquistatori sarebbero rimasti solo tali. Non si sarebbe messo in moto un gigantesco, straordinario dialogo di massa tra “vinti” e “vincitori”. E senza questo, non sarebbe avvenuto il travaso in una nuova tradizione tenacemente condivisa del patrimonio di tante realtà diverse che, incontrandosi, sono state chiamate ad amalgamarsi per svolgere un nuovo ruolo nella storia, non certo a combattersi fino all’ultimo sangue per affermare l’egemonia devastatrice degli uni sugli altri.