Poche settimane fa il Consiglio dei ministri ha licenziato il disegno di legge n. 1189 a firma del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede (il provvedimento reca il titolo “Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici”). Ribattezzato con una certa enfasi retorica “spazza-corrotti” da diversi esponenti del Governo, il provvedimento introduce una serie di innovazioni che, nelle intenzioni dei compilatori, punterebbero a migliorare la lotta al fenomeno corruttivo.
Il ddl – proseguendo il percorso riformatore avviato nel 2012 dalla legge Severino – emenda incisivamente la precedente disciplina sotto più profili, da un lato inasprendo le (già gravosissime) sanzioni previste per le fattispecie delittuose collegate al fenomeno corruttivo ed ampliando la durata dell’interdizione dai pubblici uffici a carico del condannato per reati contro la pubblica amministrazione; d’altro lato introducendo per l’accertamento di tali reati strumenti e tecniche di investigazione sino ad oggi utilizzati nella lotta alla criminalità organizzata e nella repressione delle fattispecie delittuose collegate ad essa. Quale sarà la forma definitiva che il provvedimento legislativo assumerà non lo si può dire, dovendo ancora affrontare il dibattito parlamentare che potrebbe apportare anche modifiche di rilievo. Quel che è certo per il momento è che il solo annuncio dello “spazza-corrotti”, con l’enorme risonanza mediatica che si è voluto dare alla sua approvazione, sta generando nel sentire comune grande aspettativa circa i risultati che potrebbero conseguire dalla applicazione delle nuove norme.
Per andare agli aspetti salienti del ddl, va detto subito che una delle novità di maggiore rilievo che il provvedimento, ove definitivamente approvato dalle Camere, introdurrebbe nel nostro sistema sanzionatorio è il cosiddetto “daspo per i corrotti”: impropria, ma icastica formula per definire la previsione della pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici e dell’incapacità in perpetuo di contrattare con la pubblica amministrazione per coloro che vengano condannati per un qualsiasi reato contro la Pa ad una pena uguale o superiore ai due anni (ciò che accadrebbe praticamente sempre, in considerazione della misura edittale minima e massima della pena prevista dalle nuove norme per i delitti di corruzione, concussione, peculato, induzione indebita etc.).
Per i condannati per corruzione l’interdizione perpetua dai pubblici uffici ed il divieto perpetuo di concludere contratti con la pubblica amministrazione non verrebbe meno neppure a seguito della riabilitazione, quella misura che il Tribunale di sorveglianza può concedere al condannato dopo avere valutato che lo stesso per molti anni dopo la sentenza definitiva ha dato prova effettiva e costante di buona condotta, e che per l’appunto produce in via generale l’effetto di estinguere le preclusioni anche di carattere amministrativo collegate alla condanna (tra le quali, ad esempio, la sanzione accessoria amministrativa dell’incandidabilità prevista dalla legge Severino). Ebbene, nel sistema sanzionatorio configurato dal ddl “spazza-corrotti” neppure la riabilitazione incide sulla sanzione interdittiva, destinando il “corrotto” ad una sorta di confino perpetuo e senza appello.
Da ultimo, il condannato per corruzione (o altro reato contro la Pa) non potrà accedere ai benefici penitenziari, e non potrà dunque scontare la pena in regime di affidamento in prova ai servizi sociali, dato che il carcere è l’unica modalità di espiazione prevista dal provvedimento normativo. Sotto tale profilo la situazione del condannato per corruzione viene interamente equiparata a quella del condannato per reati di mafia, di omicidio, di violenza sessuale, di estorsione ed altre fattispecie sintomatiche di elevatissimo spessore criminale.
L’altra novità di rilievo attiene invece agli strumenti investigativi che il pubblico ministero potrà legittimamente utilizzare nel corso delle indagini. Il disegno di legge n. 1189, modificando la legge 16 marzo 2006 n. 146, estende la disciplina, ivi già prevista per i delitti di mafia e per la lotta al narcotraffico, delle operazioni di polizia sotto copertura alle indagini per reati contro la pubblica amministrazione. Trattandosi di illeciti di difficile accertamento in considerazione della “comunanza di interessi e del vincolo omertoso che lega le parti del patto corruttivo”, secondo la relazione al disegno di legge, l’intervento del cosiddetto “agente infiltrato” potrebbe fornire agli investigatori un aiuto prezioso nell’individuazione dei responsabili.
Il disegno di legge, infine, sempre per agevolare sul piano investigativo l’emersione di fatti corruttivi, prevede una speciale “causa di non punibilità” in favore di chi – dopo avere commesso uno dei delitti contro la pubblica amministrazione – si autodenunci volontariamente entro sei mesi dai fatti e fornisca indicazioni utili ad assicurare la prova del reato e l’individuazione degli altri responsabili.
Sono queste le novità più significative del progetto di legge a firma del ministro Bonafede in tema di lotta alla corruzione, un progetto di legge evidentemente dettato dalla convinzione (?) che nel nostro Paese il fenomeno corruttivo abbia assunto proporzioni ormai sistemiche e che il contrasto ad esso non possa che passare da misure drastiche e provvedimenti draconiani, elaborando sul piano concettuale un’inedita equiparazione tra pubblico ufficiale corrotto e mafioso.
Ora, trattandosi di mero disegno di legge non ancora approvato e non potendo immaginare quale sarà la versione definitiva delle norme sottoposte alla discussione parlamentare, ogni giudizio di merito sulla novella sarebbe evidentemente affrettato. Non si può non constatare tuttavia da subito come la filosofia di fondo che ispira il disegno di legge a firma del ministro della Giustizia appaia quantomeno sproporzionata alle reali – attuali – dimensioni del fenomeno corruttivo. Un leale osservatore della prassi giudiziaria – magistrato, avvocato o anche solo attento lettore di quotidiani – si avvede immediatamente che oggi in Italia non solo si è lontani anni luce dalla pervasività del fenomeno scoperta nel periodo di Tangentopoli, ma le indagini ed i processi legati a fattispecie corruttive si contano letteralmente sulla punta delle dita di una mano.
Delle due allora l’una: o i nostri investigatori (gli stessi che primeggiano nella lotta alla criminalità organizzata e nel contrasto del terrorismo internazionale) hanno improvvisamente ed inopinatamente deciso di non occuparsi più dello specifico settore dei reati contro la Pa, oppure – ed è l’ipotesi più probabile – la diffusione della corruzione nel nostro Paese è ben più modesta di quanto vorrebbero farci credere. Insomma è lecito chiedersi se davvero la corruzione sia oggi l’emergenza criminale numero uno nel Paese e se davvero il ddl “spazza-corrotti” rappresentasse – o rappresenti – davvero un’urgenza per l’attuale Governo.