La benedizione di una mancanza

Vivere è avvertire un vuoto, fare in modo che rimanga tale, accettare che Dio se ne serva per insegnarci come si chiama quella mancanza che rende possibile il Suo urto. MARCO POZZA

La domanda, anche per uno come Cristo, dev’essere parsa inaudita, forse devastante: “Cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?“. A porgliela, in pieno Sinodo dei giovani, è un giovane di quelli nati con la camicia: ricco, basta a se stesso, pensa di bastare a se stesso. Poi, un giorno, avverte l’urto di una domanda, il suo cuore, scriverebbe Jannacci, si fa urgente. E nulla è più tragico di non riuscire a trovare risposta quando la domanda si fa urgente, incalzante, impellente. La felicità, ch’è traduzione laica della vita eterna, è la nostra sperata eredità: “Quello che tu erediti dai tuoi padri, riguadagnatelo, per possederlo” scrisse Goethe. Fosse stata questione d’osservanza, a quel giovane la felicità sarebbe stata dovuta: “Tutte queste cose (i comandamenti) le ho osservate fin dalla mia giovinezza“.

Un tipetto così è il sogno di ogni catechista, in parrocchia gli varrebbe il cavalierato di capo-animatori, è l’osservanza fatta carne. I comandamenti, però, sono il sei-meno-meno della vita cristiana: non basta dire d’averli osservati per essere felici. Per sognare d’aver fatto felice il Cielo: Dio, il vero Dio, non s’accontenterà mai dei compiti a casa. Tanto più che le tavole di quella Legge vennero scritte in un contesto d’amicizia, col sorriso sulle labbra e non col ghigno fosco di una certa spiritualità.

I comandamenti c’insegnano l’arte dell’amicizia con Dio, altro che regole. Se vissuti come regole, il cristianesimo è la più frustrante delle dittature: se vissuti come segreto d’amicizia, è il cuore del più rocambolesco degli inizi: quella della mia storia d’amore con Lui. Con Dio.

Quel giovane – nessun capello fuori posto, pantaloni con la piega, camicia stirata – si lamenta. Non è soddisfatto, vuole essere rimborsato: “A cosa è valsa tutta la mia osservanza? Avevate detto che bastava osservare i comandamenti per essere felici. Bugiardi! Sento un vuoto dentro: adesso chi me lo colma?”. La diagnosi è da batticuore. Gli vale la più alta quotazione di credito, lo sguardo del Maestro: “Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò“.

Dio gioca d’anticipo: decide d’amarlo ancor prima di sapere se lui Gli andrà dietro o s’allontanerà. Nel cuore di quel giovane splende un vuoto, una mancanza. Cristo, a quella mancanza, gli insegna a dare un nome: “Di che è mancanza questa mancanza, cuore, che a un tratto ne sei pieno?” s’interroga il poeta Mario Luzi. “Vuoto a rendere” leggo scritto in certi contenitori di bottiglie di vetro. È Vangelo: “Portatemi i vostri vuoti e v’insegnerò a darci un nome” dice Cristo. Non dice “li riempirò”: i vuoti fanno spavento solo a chi li vuol riempire a tutti i costi.

All’inizio il vuoto sembra essere una maledizione, ma è una benedizione: è il trono nel quale potrebbe andarsi a sedere il Dio che, a tentoni, abbiamo cercato tra mille pieni. La felicità che ci ha stregati, anche stremati, con la sua perpetua mancanza. “Va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!“. La diagnosi di Cristo è infallibile, ha mira di cecchino: “I compiti a casa sono ottimi, ragazzo. Il fatto-serio è chiedersi per chi hai fatto tutto quello che hai fatto”.

Eccolo Cristo: per chi ha mira, basta un colpo solo e si va a bersaglio. Quel vuoto non si sazia con nessun alimento, si può solo soffocare con falsi-d’autore. Il nome di quella mancanza è l’Uomo che Gli sta dinanzi: “C’è un vuoto a forma di Dio nel cuore di ogni persona — scrive commosso il genio di Blaise Pascal — e non può mai essere riempito da nessuna cosa”. Vivere è avvertire questo vuoto, fare in modo che rimanga tale, accettare che Dio se ne serva per insegnarci come si chiama quella mancanza che, tormentandoci, ci rende vivi. Rende possibile l’urto di Dio.

Chiese, ottenne risposta, rifiutò l’offerta. Sgattaiolò “rattristato. Possedeva infatti molte ricchezze” (cfr. Mc 10,17-30). Il miracolo, stavolta, non avvenne: la sequela rimarrà il miracolo più ardito da lasciare che accada. Esiste una cosa ben più triste di non aver avuto un’occasione: averla avuta, non averla afferrata. Non c’indurre nella tentazione: di riempire il vuoto senza saper prima qual è il suo vero nome.

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