Kampala. Negli anni 90, finita la guerra civile, alcune donne di etnia acholi rifiutate dai villaggi d’origine perché macchiate di orribili crimini, violate e malate di Hiv si rifugiarono nella parte più remota di Kireka, uno dei più grandi slum di Kampala, a ridosso della cava di pietra. Magrissime e malate, sembravano fantasmi e la gente aveva paura di loro. L’unica cosa che trovarono da fare per sopravvivere fu spaccare pietre.
Oggi questa zona è cresciuta, si chiama Acholi Quarter e molte di queste donne continuano a spaccare pietre armate di un robusto bastone alla cui estremità è incastrato un grosso bullone: 60 centesimi per 50 kg, più o meno 5 ore di lavoro. Oggi sono qui, accompagnata da due rappresentanti di Avsi Uganda. Siamo diretti in un luogo di cui non so niente, è una sorpresa, per me. Saliamo verso la cava seguendo dei canti e un suono di tamburi che si fa sempre più potente. Sotto una tettoia ci accolgono tante donne che cantano, suonano e ballano muovendosi secondo gli ordini impartiti da un dispotico e acutissimo fischietto brandito dalla capo-danza. Inizia lo spettacolo: davanti a me una cinquantina di donne iniziano a cantare e ondeggiare battendo le mani a ritmo e ripetendo le stesse frasi.
A turno si staccano dal gruppo delle donne travestite che inscenano di volta in volta situazioni drammatiche di violenza e miseria: la guaritrice che fa i suoi sortilegi, la prostituta, la stracciona alcolista, la guerrigliera armata di machete, la carceriera nella boscaglia, la mamma che piange sul corpo della figlia e molte altre. Attorno a me ci sono donne africane con i loro bambini in braccio, sulla porta e aggrappati alle sbarre delle finestre molti altri bambini che guardano attentamente. Questo non è solo uno spettacolo, è una narrazione orale come nella più profonda tradizione africana.
Questa lunga ballata, sempre con lo stesso ritornello ritmato dagli stessi passi di danza, non è rivolta solo a me spettatore; questo racconto contiene monito e morale ma soprattutto verità e memoria per non dimenticare le sofferenze della guerra. Le attrici sono bravissime, impersonano se stesse, alcune di loro piangono, recitando rivivono il loro drammatico passato, ma ogni volta finisce che si strappano i loro vecchi stracci di dosso, si spogliano della loro tristezza e della loro vecchia vita e cantano felici la loro ritrovata libertà.
Questa commovente rappresentazione è dedicata a Rose, un’infermiera ugandese che circa 20 anni fa ha creduto in loro, le ha aiutate a tornare a vivere e con loro nel 2003 ha costituito una Ong chiamata Meeting Point International. In seguito con l’aiuto di Avsi ha creato una realtà che oggi conta due scuole, una Welcoming House, che ospita una trentina di bambini, e il centro dove mi trovo in questo momento. Sono al Meeting Point, lo spettacolo è finito e tutti applaudono, Rose è seduta vicino a me, sembra una mamma alla recita di Natale del proprio figlio, guarda le sue donne soddisfatta e piena di orgoglio. Vorrei parlare con lei, ma lo farò più tardi: adesso ha occhi solo per loro.