L’Italia porta verso Paolo VI un debito di riconoscenza che raramente è messo a tema e che, tuttavia, è essenziale porre a mente. Ciò non tanto per completare l’iconografia del grande pontefice di cui si è appena celebrata la santità; quanto, piuttosto, per andare alla radice di quella coesione e costruttività sociale, che sia pure in modo non lineare e definitivo ha caratterizzato tanta parte della storia repubblicana e il cui smarrimento è infine degenerato in quell'”età del rancore” perfettamente radiografata dal Censis, pregna di smarrimento, inquietudine, paura e rabbia.
Il metodo della tolleranza e del reciproco riconoscimento che ha segnato gli anni del progresso sociale ed economico del Paese, non è nato da sé. Certamente è riconducibile alla grande innovazione antropologica avviata dalla Costituzione del ’48, fatta del rispetto della personalità del singolo e della valorizzazione delle diversità insite in ogni corpo sociale. Al contempo, tuttavia, detto metodo ha una propria specificità; deriva da precise scelte culturali e antropologiche spesso avviate lontano dal clamore, nel segreto delle coscienze e dell’eroismo delle azioni quotidiane. Come scriveva Emmanuel Mounier, “È dalla terra, dalla solidità, che deriva necessariamente un parto pieno di gioia e il sentimento paziente dell’opera che cresce, delle tappe che si susseguono, aspettate quasi con calma, con sicurezza… Occorre soffrire perché la verità non si cristallizzi in dottrina, ma nasca dalla carne”. Sicché sono proprio quelle pagine nascoste della storia che occorre riscoprire, per comprendere dove la scuola della tolleranza e dell’apertura verso l’altro ha posto i primi passi.
Correvano i primi anni dell’era fascista, fatta del culto per lo Stato e dell’avversione sanguinosa verso le opposte visioni. Proprio in quegli anni Venti e Trenta un giovane sacerdote si premurò di far conoscere agli universitari dell’epoca un pensiero diverso e alternativo a quello dominante. Per sfuggire ai rigidi controlli della censura, egli addirittura prese a tradurre e trascrivere di proprio pugno alcune opere straniere, veicolandone il contenuto su quaderni clandestini. Grazie a Giovanni Battista Montini, all’epoca assistente centrale della Fuci (dal 1925 al ’33), un’intera generazione di giovani universitari poté formarsi, studiando le opere altrimenti sconosciute dei cattolici progressisti francesi (Maritain, Mounier, Gilson, Daniélou, Hauriou, Burdeau, ecc.); divenuto Sostituto della Segreteria di stato vaticana, riuscì poi a favorire la circolazione clandestina del quaderno con la prima traduzione manoscritta di Umanesimo integrale di Jacques Maritain, ad appena due anni dall’edizione francese.
Si trattava di un pensiero realmente nuovo e dirompente, non solo rispetto all’impianto monolitico dello Stato etico fascista, ma riguardo allo stesso sentire della cattolicità. Esso riapriva il dialogo fra Chiesa e modernità, con una reciproca apertura verso il metodo democratico e verso una concezione della libertà e della ragione non più pregiudizialmente ostile nei riguardi della religione. La Chiesa poteva smettere di sfidare il mondo, come se fosse stata in una cittadella fortificata. La politica veniva intesa come desumibile dalla ragione e giammai dalla fede, sicché la Tradizione della fede cattolica poteva condividere con simpatia l’istanza moderna del soggetto, cioè della libertà.
Le implicazioni di una tale apertura erano inaudite. In un suo scritto Maritain precisava: “Non soltanto, dunque, il che va da sé, uomini aventi convinzioni religiose diverse potranno collaborare a stabilire una tecnica, a spegnere un incendio, a soccorrere un affamato, o un malato, o far ostacolo a un’aggressione. Ma anche, ed è quello che qui interessa, è possibile che essi cooperino, almeno e innanzitutto nei confronti dei beni primi dell’esistenza di quaggiù, in un’azione costruttiva concernente la retta vita della città temporale e della civiltà terrestre e i valori morali che ne sono investiti“.
Ed aggiungeva in un’altra opera: “Avviene così che uomini in possesso di convinzioni metafisiche o religiose del tutto diverse e perfino opposte — materialisti, idealisti, agnostici, cristiani ed ebrei, mussulmani e buddisti — possano trovare una convergenza, non in virtù di una qualche identità dottrinale, ma in virtù di una somiglianza analogica nei principi pratici, verso le stesse conclusioni pratiche, e possano avere in comune la stessa ‘filosofia’ democratica pratica, purché venerino allo stesso modo, magari per ragioni completamente diverse, la verità e l’intelligenza, la dignità umana, la libertà, l’amore fraterno e il valore assoluto del bene morale“.
Fu quella scuola umana, prima ancora che culturale, che preparò la via alla svolta che quei giovani studenti universitari, una volta divenuti componenti dell’Assemblea costituente (Andreotti, La Pira, Lazzati, Moro, Dossetti, Fanfani) sarebbero riusciti a realizzare. Il “compromesso costituzionale” tanto celebrato fra le diverse idealità e forze politiche del Paese trasse origine e legittimazione proprio da quell’impostazione: una “neutralità ideologica” che — come in seguito commentò Leopoldo Elia — si realizzò sul piano pratico e non già teorico, lasciando “per così dire in anticamera le premesse di valore, il discorso sui presupposti di fondo“. Come ebbe a dire in un’altra occasione lo stesso Maritain, a proposito del pari compromesso avvenuto nella stesura della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: “siamo d’accordo sui diritti, ma a condizione che nessuno ci chieda perché“.
Di qui, per l’appunto, l’estensione del successivo compromesso costituzionale anche su questioni più settoriali, sebbene di estrema rilevanza per l’effettiva tenuta del pluralismo del Paese. Si pensi alla genesi del primo comma dell’articolo 7 della Costituzione, rievocata in modo disarmante dallo stesso La Pira in una lettera di alcuni anni dopo a un amico, testimone della vicenda: “ricordi quella mattina dell’autunno, credo, 1946? In casa Montini, nella biblioteca Montini, La Pira prende un libro: lo apre: viene fuori il testo della Immortale Dei (se non sbaglio) di Leone XIII nel punto ove si distinguono le due sfere Chiesa-Stato. Il testo latino viene tradotto in italiano da Monsignor Montini: il testo italiano viene poi presentato a Togliatti (che lo approva): e diventa così l’art. 7 della Costituzione italiana“.
Non è il senso vittorioso della sfida verso il diverso a consentire la coesione sociale e, dunque, il reciproco impegno per il bene comune. In un suo appunto — pubblicato da 30 Giorni — Montini segnava questa frase di Agostino: “Imita gli uomini buoni, tollera i cattivi, ama tutti“. Se si sfida il mondo, non si possono amare tutti.
È una fortuna, per il nostro Paese, poter recuperare la consapevolezza che la strada in cui è potuto progredire è stata una strada di reciproca comprensione e — ora si scopre — anche di santità. Che Paolo VI possa sostenere le occasioni di una prossima crescita. Che possa favorire la pace sociale di un popolo vieppiù smarrito.
PS – C’è poi un ultimo episodio personale e familiare che vorrei ricordare. Era l’autunno del 1968 e da pochi mesi era stata pubblicata l’Humanae vitae, quell’inno alla vita che tanti intellettuali e credenti avversarono con virulenza. In occasione di una delle consuete udienze pontificie, che all’epoca si svolgevano all’interno della Basilica di San Pietro, si era recato un papà con la moglie e uno dei suoi piccoli figlioli, gravemente cerebroleso, per avere la benedizione. Il Papa passa con il corteo nel corridoio della navata centrale e, dall’alto della sedia gestatoria ove era accomodato, nota l’anomalia di un bambino issato in alto dalle braccia del genitore con la testolina, tuttavia, reclinata in modo innaturale. E così, fa fermare il corteo e una guardia svizzera raggiunge quel gruppo familiare, accompagnandolo al Suo cospetto. Nel corso del breve e intenso colloquio il genitore spiega le ragioni dell’handicap del figlio. Il Papa ascolta e prende in braccio il bambino per benedirlo, nel mentre alcune lacrime solcano il suo volto; rassicura il genitore delle sue preghiere, aggiungendo poche parole cariche di significato e speranza: “bimbo fortunato“. Non sono poi mancati successivi momenti e occasioni d’incoraggiamento.
Anche per quelle lacrime di commozione, per la testimoniata consapevolezza della drammaticità del mistero insondabile della vita, dimostrata con una paternità carica di conforto, resta cara la gratitudine verso San Paolo VI.