Si può governare con un “contratto” che non evolve in un “alleanza”? È questo l’interrogativo che occorre porsi nei giorni di preparazione della nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza e ,quindi, della Legge di bilancio. Molti nodi sulle differenze sostanziali tra i due maggiori partner dell’esecutivo (che rappresentano “blocchi sociali” differenti e spesso contrapposti) stanno venendo al pettine. Paradossalmente, il ministro “tecnico” dell’Economia e delle Finanze, Giovanni Tria, è apertamente sostenuto dall’opposizione e parimente apertamente osteggiato da uno dei due “azionisti di maggioranza” del Governo – una situazione che mostra chiaramente lo scollamento all’interno dell’Esecutivo.
Nel redigere il contratto di governo, la Lega e soprattutto il M5S dissero che si stavano ispirando alle grandi coalizioni tedesche. Niente di più errato. Ero a Berlino quando si trattava per la formazione del primo Governo Merkel che nasceva tra due forze politiche tradizionalmente avversarie e opposte l’una all’altra nella precedente campagna elettorale. Avevo una certa dimestichezza con Michael Glos, che sarebbe stato ministro dell’Economia sino al 2009. I negoziati furono lunghi e anche produttivi perché non portarono solo a un “contratto”, ma agli schemi di disegni di legge dettagliati (e ovviamente concordati) sui punti salienti del programma da attuare. Le definizione degli schemi fece sì che la grande coalizione diventò un’alleanza per la durata della legislatura. Altro aspetto chiave fu l’affidamento dei dicasteri chiave non a “tecnici di area”, o a tecnici conosciuti il giorno prima della formazione dell’Esecutivo, ma a politici di spicco delle due forze politiche che impegnavano, quindi, la loro responsabilità politica di fronte ai loro partiti, agli elettori e al popolo tedesco in generale.
In Italia, si è avuto un esempio analogo con il pentapartito guidato da Bettino Craxi e formato nell’agosto 1983, il terzo Governo più longevo nella storia d’Italia a sistema elettorale proporzionale e il primo con un Presidente del Consiglio socialista. I cinque partiti della coalizione avevano sensibilità molto differenti. All’interno del maggiore di essi (la Democrazia Cristiana), le differenze di visione politica avevano dato vita a “correnti” in competizione tra loro. La responsabilità di fondere le proposte con cui si erano presentati agli elettori in un programma venne data alla sottile saggezza di Giuliano Amato, ma la maestria di Bettino Craxi fu quella di affidare i dicasteri di peso ai Segretari dei cinque partiti e ai leader delle correnti principali della DC. In tal modo si ebbe il massimo coinvolgimento e la massima esposizione politica e si forgiò l’alleanza.
Una lettura attenta del contratto di governo dell’Esecutivo giallo-verde mostra come non è un compromesso, declinato in provvedimenti operativi scadenzati nell’arco della legislatura, ma una sommatoria (non cifrata e non cronoprogammata) delle proposte con cui le due maggiori forze si erano presentati agli elettori. I due leader politici sono entrati nel Governo con il rango di vicepresidenti del Consiglio, ma la presidenza del Consiglio è stata affidata a un “tecnico di area” (di una delle due forze politiche) e due dicasteri di grande importanza (Affari esteri ed Economia e finanze) a tecnici neanche “di area”, ma scelti all’ultimo momento (su suggerimento di “tecnici di area”) nella convinzione che, letto il contratto di governo e riconoscenti di essere ascesi a due alti scranni, avrebbero puntualmente seguito le indicazioni dei due vicepresidenti del Consiglio.
Adesso si è in una situazione in cui il ruolo del presidente del Consiglio è ridotto a quello di un simpatico e cortese “gran ciambellano”, l’europeista di lungo corso ministro degli Esteri segue il “sovranismo” solo sino a quando richiede e che il ministro dell’Economia e delle Finanze è colui che dà le carte nelle specifiche misure da attuare tra quelle con le quali le due forze politiche si sono presentate agli elettori. Ha la consapevolezza che se viene spinto alle dimissioni crollerà l’intero Governo e il Capo dello Stato (che lo sostiene) non avrà altra alternativa che quella di nominare un Esecutivo istituzionale.
Ne sono consapevoli anche le due forze politiche, tanto che una si è riavvicinata alla “casa madre” di centrodestra e all’interno dell’altra regna il subbuglio più pieno dato che è ormai chiaro che si presenteranno alla elezioni europee al massimo con una parvenza di quella che è stata la proposta più accattivante per il loro elettorato, il cosiddetto “reddito di cittadinanza”.
È probabile che il M5S uscirà sostanzialmente sconfitto nella prossima Legge di bilancio, anche se dovrà fare buon viso a cattivo gioco e dare da intendere agli elettori che nonostante tutto il reddito di cittadinanza salpa verso lidi fausti e non troppo lontani. Dovrà anche mostrare di non essere stato ingabbiato da un ministro dell’Economia e delle Finanze scelto il giorno prima del giuramento al Quirinale e non proveniente né dai leader, né dei simpatizzanti del Movimento. Dopo le elezioni europee e dopo le regionali e comunali, in cui l’altro “socio di maggioranza” correrà con Forza Italia e Fratelli d’Italia, si tireranno le somme.