Come dicevo ieri, serve stimolare la crisi. E rendere credibili, paradossalmente, proprio le politiche poste in essere per stimolarla, ovvero quelle mosse suicide che, forza della disperazione e spesso dell’ignoranza, trovano anche sempre maggior supporto nell’opinione pubblica. Bene, guardate questi due grafici, sono inquietanti da quanto sono esplicativi. Il primo ci mostra quale sia stata la reazione, a livello di percezione di pericolo, del mercato all’annuncio di Trump di nuovi dazi contro prodotti cinesi per un controvalore di 200 miliardi di dollari (e la reazione di Pechino per 60 miliardi): zero, placidi come laghi alpini, cieli azzurri senza una nuvola. E questa sarebbe la guerra commerciale che potrebbe portare danni strutturali alle due economie più grandi e potenti al mondo? O, forse, la via d’uscita dalle scelte obbligate di contrazione monetaria di Fed e Pboc che, se portata avanti realmente, schianteranno quei due casinò chiamati Wall Street e sistema bancario ombra? E, come vi dico dall’inizio, nel processo assestare un colpo da potenziale ko al sempre più ribelle concorrente economico, l’eurozona.
Volete la prova provata del fatto che, a oggi, la Cina non abbia nemmeno un livido a causa dei dazi e come, invece, il loro prezzo lo stiano già pagando i cittadini americani, ovviamente quelli che devono fare i conti per tirare la fine del mese, non certo i miliardari? Guardate questo grafico, nella prima tranche di tariffe penalizzanti verso merci cinesi, la Casa Bianca ha applicato un dazio del 20% sulle lavatrici importate: guardate l’aumento patito da quel bene per i consumatori. Quasi l’intero ammontare della penalità è scaricato sui portafogli degli americani!
E volete un’altra prova? È in questo articolo, il quale ci dice come venerdì scorso, alla vigilia dell’entrata in vigore della seconda tranche di dazi, Walmart, la catena di grande distribuzione più diffusa negli Stati Uniti, si sia sentita in dovere di scrivere una lettera a fornitori e consumatori, anticipando il rischio di un aumento dei prezzi al dettaglio proprio a causa dei nuovi dazi introdotti su un controvalore enorme di prodotti importati dalla Cina di larghissimo consumo. Vi servono altre prove? Il secondo grafico di cui vi parlavo prima poi è ancora più chiaro, perché ci mostra come – dopo la revisione dei dati Fed relativi al secondo trimestre di quest’anno – si sia scoperto che i Fondi pensioni sono stati acquirenti netti di Treasuries, ovvero di debito pubblico americano. Insomma, le entità spesso e volentieri statali e federali chiamate a gestire, preservare e far fruttare con oculatezza i contributi dei lavoratori Usa, stanno comprando, oltre a tutte le porcherie a rischio che Wall Street sta già scaricando (mitiche Fang in testa), anche il frutto malato delle politiche di indebitamento folle e leva di deficit della Casa Bianca, un qualcosa che porterà i conti all’ingestibilità – a livello di deficit – già a partire dal terzo trimestre dell’anno prossimo, quando il deficit sfonderà quota 1 triliardo di dollari con un anno abbondante di anticipo sulle previsioni (già non rosee) degli analisti.
Ed ecco il punto di cui vi parlavo ieri, quando vi mostravo appunto questa dinamica di cambiamento forzato nelle detenzioni di debito Usa: meno dipendenza estera, perché spaventata dalle fluttuazioni del dollaro innescate proprio dalla politica della Casa Bianca e più detenzione interna, sul modello giapponese. Perché? Per la seconda parte dell’operazione legata alla “guerra commerciale” con la Cina, la svalutazione massiva del dollaro come componente strategica della lotta politica protezionistica. E, stante il danno che già sta subendo l’industria europea dalla guerra delle tariffe in combinato con la crisi degli emergenti, a causa dell’incidenza molto alta dell’export nel Pil totale dell’Ue, cosa pensate che accadrà alle nostre aziende esportatrici con un dollaro non più così forte e un euro non più così conveniente, oltretutto a Qe concluso?
E Trump ha almeno un paio di opzioni praticabili per ottenere quel risultato. Primo, ordinare al Tesoro – con il quale, non a caso, è in guerra – attraverso la Fed di New York di vendere dollari e comprare valute estere come yen ed euro, utilizzando l’Exchange Stabilization Fund. Il quale, però, ha a sua disposizione assets per un controvalore di soli 22 miliardi di dollari, poco per avere un impatto reale sui mercati. Quindi, ecco la seconda opzione, chiamiamola “nucleare”: eliminare i limiti di intervento del Fondo e bypassare lo stesso Congresso, a rischio di impasse dopo le elezioni di mid-term di novembre, dichiarando l’intervento a livello monetario un’emergenza nazionale, fattispecie che gli garantisce poteri pressoché assoluti. Fra cui quello di obbligare la Fed a usare il suo “conto corrente” per vendere dollari con il badile.
La strategia è questa, vedrete cosa accadrà da qui alla prossima primavera. Ecco perché serviva una base di detenzione interna ai titoli di Stato: perché la prossima fluttuazione del denaro sarà tale da innescare potenziali sell-off da parte di investitori esteri e il cuscinetto di sicurezza garantito dal pubblico americano riuscirà a mitigare gli effetti immediati di tale, possibile reazione. Direte voi, tornando per un attimo a casa nostra: in Italia non è così, anzi i poteri forti stanno facendo la guerra a questo Governo, basti vedere i dati di vendita record di Btp da parte di investitori esteri a maggio e giugno di quest’anno. Vero, peccato che oltre alla Bce, a operare off-set su quelle vendite ci siano – e in operatività massima – i principali istituti di credito italiani, i quali invece di erogare prestiti e mutui a famiglie e imprese, stanno comprando proprio Btp.
Da quando le banche sono “poteri deboli”? Stanno vendendo la favola della rivoluzione popolare alla gente e questa ci crede, nonostante stiano – coi fatti – operando secondo vecchie regole e vecchi schemi. Anzi no, c’è una novità, anch’essa tutta frutto di percezione e mistificazione. La vecchia politica, di fatto, si basava sul cosiddetto tax’n’spend alla Gordon Brown per capirci, spesa pubblica allegra e spesso fuori controllo (spesso e volentieri per garantire welfare disfunzionale e privilegi per l’esercito elettorale dei dipendenti pubblici) e tassazione esasperante resa però più digeribile proprio dall’atteggiamento tutt’altro che responsabile e da formica del Governo di turno, dello Stato. Insomma, saggia alternanza di bastone e carota. Oggi, invece, per rendere spendibile la narrativa della rivoluzione, si opera con il mantra del taglio delle tasse, vedi Trump con la sua riforma fiscale o la Lega con la sua farsesca flat tax, di fatto già archiviata nella sua forma originale e in continuo slittamento in avanti anche in quella alternativa e rivisitata in forza alla realtà dei conti pubblici e non delle panzane elettorali. E cosa portano quelle riforme fiscali? Benefici unicamente per chi guadagna molto e per le società. Chi già paga tasse basse, essendo redditualmente rientrante nella fascia di aliquota minima, risparmia poco o nulla.
E sapete, almeno in America, come e per cosa ha funzionato questa favoletta? Ve lo mostrano questi due grafici, il quali schematizzano il controvalore di denaro detenuto all’estero dalle corporations statunitensi e rientrato in patria grazie agli sgravi delle riforma fiscale fortemente voluta dalla Casa Bianca: pensate che quel denaro sia andato tutto in ricerca e sviluppo, in creazione di nuovi posti di lavoro o di miglioramento delle strutture societarie e aziendali, proprio in ossequio al motto trumpiano e autarchico del make America great again? No, in buybacks azionari, i quali per la prima volta in 20 anni, hanno superato come controvalore la spesa in CapEx, ovvero in flusso di cassa per investimenti fissi.
E cos’ha portato questo? Alla continua rottura di nuovi record per Wall Street, a sua volta tramutatisi in sempre nuovo consenso popolare e mediatico per Trump, in ingolosimento del parco buoi (clientela retail e Fondi pensione) che vuole partecipare alla festa e compra ciò che banche e finanziarie vendono a valutazioni massime e, soprattutto, in ulteriore arricchimento di quell’1% della nazione che l’inquilino della Casa Bianca dice, a parole, di voler combattere in nome del popolo. Ma di cui, in ultima analisi, fa parte da sempre. E nessuno va contro il proprio interesse. E, tantomeno, governo e legifera contro se stesso, state certi. Significa che la corporate America non investe? No, sarebbe scorretto e sbagliato dirlo, visto che su base annua il CapEx in valore assoluto è cresciuto. E di molto. Ma resta il fatto che se il tuo mantra assoluto, quello che ti ha portato a Pennsylvania Avenue, è stata la lotta contro gli speculatori e la lobby di Wall Street, quel rapporto di forza – anzi, di capitali – dovrebbe non solo essere invertito, ma addirittura percentualmente schiacciante in favore dell’investimento di economia reale. Così non è, invece.
Ecco cos’è il populismo, ecco cos’è il sovranismo di cui l’America trumpiana è faro e riferimento. Ecco perché quanto sta accadendo al governo è troppo stupido per essere vero e unicamente ascrivibile a dinamiche interne. Ecco perché la tregua di mercato di cui stiamo godendo va temuta, non festeggiata. O pensate, ad esempio, che l’uno-due piombato addosso a Rocco Casalino sul finire della scorsa settimana sia frutto di grande intuizione giornalistica o sfortuna e non di uno studiato auto-sabotaggio per mettere le mani avanti? A tale riguardo, vi invito a riflettere su un particolare. Mentre in Italia non si parlava d’altro, evocando scenari para-golpistici, purghe staliniane e licenziamenti in nome della Costituzione, il sedicente Isis compiva un attentato nel corso di una parata di Pasdaran nel sud dell’Iran, ammazzando una trentina di persone, fra cui alcuni bambini e un reduce di guerra in sedia a rotelle. Un attentato sunnita nel cuore dell’impero sciita, roba da guerra totale in Medio Oriente. E non solo. Ma qui, parlavamo di Rocco Casalino.
Non vi sentite, a mente fredda, sempre più la “rana bollita” di Noam Chomsky? Ricordatevi, niente è come sembra. Nemmeno questo Governo del cambiamento. E tantomeno l’amministrazione Trump.
(2- fine)