Mercoledì scorso, nel corso di una conferenza stampa, il Presidente argentino Macri ha dichiarato che le cifre che si conoscono sulla percentuale di povertà nel Paese, vicine al 29% dopo essere scese dal 34% del 2015 al 25% dello scorso marzo, corrispondono alla realtà e che il suo Governo non nasconderà mai questi come altri dati. Rimarcando che gli stessi sono la causa delle turbolenze finanziarie degli ultimi mesi. In sostanza ha ammesso le grandi difficoltà che attraversa l’Argentina, che purtroppo paga anche errori suoi, fatti che mettono in discussione la sua candidatura per le Presidenziali del prossimo anno.
Fino a quattro mesi fa quanto descritto sopra pareva impensabile e nei sondaggi, chiodo fisso di questo Governo, la rielezione di Macri sembrava certa, visto che la sua immagine registrava una positività dovuta a una nazione che sì era in difficoltà, ma stava lentamente recuperando, dopo un’iniziale negatività, lo shock dell’eredità di 13 anni di kirchnerismo, durante i quali non solo si era registrata la più colossale corruzione della storia del Paese, ma anche una sistematica falsificazione dei dati e non solo.
Nel 2015 Cristina Kirchner ricevette un premio dalla Fao, l’organizzazione delle Nazioni unite che combatte la fame nel mondo, per i risultati ottenuti in questa lotta dall’Argentina da lei governata, dove i dati ufficiali, trasmessi all’Onu, parlavano di un 5% di povertà nel Paese. In pratica le stesse percentuali della Germania, cosa che non solo sorprese il mondo intero, ma mandò in visibilio internet, dove iniziarono ad apparire foto delle gigantesche Villas Miserias di Buenos Aires con una bandiera tedesca issata. Un dato fasullo, come nel corso degli anni lo erano quelli dell’Indec (l’Istat argentino) sull’inflazione, inesistente o quasi: bastava però recarsi in un supermercato per constatare invece che i prezzi subivano aumenti notevoli, tanto che un’inchiesta fatta da società private di consulenza economica aveva stabilito il tasso inflazionario in un 40% annuo.
Quindi Macri, appena eletto Presidente, si è trovato a che fare non solo con le casse dello Stato praticamente vuote, ma pure con un Paese mancante di infrastrutture per far decollare l’economia e in uno stato che, se si fosse protratto ancora, avrebbe portato l’Argentina a ripetere l’esperienza del Venezuela. Insomma, in quell’occasione si è sfiorato un classico della storia argentina: dopo un lungo periodo di potere politico peronista, nei suoi ultimi anni si registrano segnali importanti di crisi, ma a quel punto la palla passa a un’opposizione che spesso deve ricorrere a manovre estreme per salvare la situazione o, come nel 2001, diventa la responsabile di un caos largamente programmato.
Non avvertire chiaramente il Paese sulla gravità della situazione ereditata è stato il primo degli errori commessi da Macri, quello che ha rivelato la tara più importante della sua Presidenza: l’incapacità, voluta o meno, di comunicare. Gli aumenti delle tariffe energetiche subito decisi dal suo Governo e che hanno suscitato proteste notevoli non sono stati spiegati con il fatto, incontestabile, che le bollette di gas e luce insieme valessero meno di una tazzina di caffè perché lo Stato copriva più dell’80% del loro valore reale. E che il 70% di questo regalo andava a favore non delle classi più bisognose ma di quelle a più alto reddito. Insomma, un’occasione di giustizia sociale reale buttata alle ortiche perché non si è saputo spiegarla bene alla gente, come l’entusiasmo di tutto il Governo quando, appena eletto, parlò dell’arrivo imminente di una pioggia di investimenti stranieri in una Argentina che si era appena aperta internazionalmente. Tutti a uscire con l’ombrello da casa, ma invece è arrivata una siccità che ha mandato in crisi l’agricoltura nazionale, vero asse portante dell’economia argentina. Perché è praticamente impossibile che altri Paesi investano capitali in una nazione dove mancano infrastrutture degne di questo nome. Infrastrutture che alcuni anni fa lo Stato aveva interamente pagato, ma che non sono mai state costruite e i fondi sono finiti nella corruzione di cui sopra si è scritto.
E a questo proposito, un altro errore gravissimo riguarda la giustizia: Macri aveva promesso una lotta sistematica alla corruzione e subito si sono riaccese indagini interrotte negli anni kirchneristi da giudici amici del potere e nello scorso agosto è scoppiata la Tangentopoli argentina con la scoperta e rivelazione dei famosi quaderni dell’autista del numero due del ministero dello sviluppo, che hanno inchiodato ancor di più soprattutto Cristina Kirchner e il suo Governo. Ma inaspettatamente, il ministro della Giustizia Garavano si è espresso contro la privazione dell’immunità parlamentare la custodia preventiva dell’ex Presidente. Insomma, un Governo che smentisce continuamente se stesso.
Il proverbio “Non dire gatto se non ce l’hai nel sacco” pare proprio non entrare ancora nei pensieri del Presidente: recentemente ha rischiato di provocare una debacle finanziaria interna nell’anticipare una manovra di finanziamento del Fondo monetario internazionale che ancora non era stata decisa, provocando le proteste del Fondo stesso. Con il quale l’Argentina è stata costretta a riprendere una relazione chiedendo prestiti per un valore di circa 50 miliardi di dollari: fatto reso obbligatorio proprio per avere fondi in grado di poter contrastare le crisi finanziarie internazionali che generalmente colpiscono i Paesi emergenti (anche se l’Argentina è da considerarsi un emergente eterno, pare). Difatti i prestiti iniziali contratti (a causa delle casse vuote) sono serviti a finanziare i molteplici cantieri e iniziative atte a costruire infrastrutture, oltre che a cercare di dare inizio a uno sviluppo economico. Di uno Stato che non aveva altre soluzioni (e non le ha), visto che quasi l’80% dei suoi introiti viene speso nel sociale: sottratto un buon 45% per le pensioni, il resto è diviso tra sanità e l’elevata spesa in sussidi alle classi più indigenti, che però, nei quasi 15 anni dalla creazione, hanno aumentato la povertà invece di diminuirla, alimentando pure il “mercato” dello scambio con il voto politico, oltre a un fenomeno unico al mondo. In pratica i movimenti sociali che quotidianamente bloccano il traffico e indicono manifestazioni contro la malvagità del Governo ricevono fondi e contributi sociali proprio dal Governo che dicono di combattere. Insomma, i disoccupati scioperano e sono pagati dal Governo per farlo: detto questo si capisce come Borges non potesse che nascere da queste parti, regno di una metafisica che assume la logica come una variabile, invece che una sommatoria di certezze. Dove succede tutto il contrario di quello che ci si potrebbe immaginare. Con lo stesso attuale Presidente che partecipa assiduamente a questo gioco: difatti un’altra delle cose difficili da capire è come, fin dal 2015, i manager o componenti del suo Governo che registrano successi nei rispettivi campi vengano improvvisamente licenziati.
È successo all’economista Pratt-Gay, “colpevole” di aver risolto in 15 giorni il problema dei tango-bond che si protraeva da oltre 15 anni e di aver mantenuto il cambio reale del dollaro, dopo quelli fantomatici dei ministri dell’Economia kirchneristi, a livelli altamente competitivi e in grado di far marciare l’economia. O come la manager Isela Costantini, rea di aver risolto in appena due anni il problema di una compagnia aerea, Aerolineas Argentinas, che da oltre 20 registrava perdite simili a quelle della nostra benamata Alitalia. O come Carlos Melconian, economista che in un solo anno ha messo al passo con i tempi un’entità quasi primitiva come Banco Nacion.
Questa gara di paradossi si svolge in un ambito anch’esso incredibile, in una nazione dove, conti alla mano, l’84% della popolazione viene mantenuto dal 16% di quella attiva. Includendo in questa cifra anche gli impiegati del gigantesco apparato statale, la prima industria argentina. Non c’è quindi da stupirsi se in questo collage l’Argentina subisce contraccolpi economici gravissimi al primo starnuto della finanza internazionale. Amplificato, bisogna aggiungere, da gruppi di banche che, come i lettori del Sussidiario già sanno, approfittano della dipendenza psicologica dei risparmiatori nei confronti del cambio del dollaro comprandone in grandi quantità in modo da provocare un effetto domino che poi si ripercuote sul cambio stesso e sull’economia del Paese, provocando delle crisi che, sebbene non possano nemmeno lontanamente essere paragonate a quella del 2001 per la massiccia presenza di capitale nelle banche, vengono propagandate da un’opposizione estrema, che è poi quella che ha portato il Paese in uno stato di crisi quando era al potere, come tali.
Ora l’unica cosa che è rimasta da fare a Macri è prendere atto di una situazione che è ben lontana da quella “sognata” nel 2015 e iniziare a stringere i cordoni della borsa soprattutto nelle spese ingiustificate o che il Paese non può più permettersi: fatto che sicuramente non sarà favorevole alla sua ricandidatura nel 2019, anno dove però chiunque sarà il vincitore dovrà giocoforza continuare in queste politiche. Perché altrimenti un Paese grande 10 volte l’Italia con soli 40 milioni di abitanti e ricchezze inesauribili, fatti che dovrebbero equipararlo a un Emirato Arabo come entrate individuali, continuerà a sognare di essere quello che da oltre 40 anni non riesce a diventare.