Dopo mesi di pazza guerra interna, il Pd pare tornato a coalizzarsi intorno a un nuovo leader, l’ex ministro degli Interni Marco Minniti, prima delle elezioni forse il personaggio di governo più popolare d’Italia.
Minniti non ha sciolto le riserve. Forse teme che la proposta sia un ultimo tentativo di pugnalarlo alla schiena dei suoi compagni, come è stato spesso nella storia del partito. Ma pare comunque oggi un segno nella giusta direzione.
Anche il suo collega Nicola Zingaretti su queste pagine pare avere cambiato. Va incontro agli elettori scontenti dicendo che Lega e M5s pongono le domande giuste anche se danno le risposte sbagliate.
Eppure non c’è un senso di urgenza nel partito. Il congresso dovrebbe risolvere le cose, ma forse no. Meglio aspettare che gli equilibri tra correnti e fazioni si plachino e si formino nuovi coaguli? Le questioni interne sono più importanti rispetto a quello che accade nel resto del mondo, una convinzione classica dei partiti fortemente strutturati.
Tale elemento di concentrazione su stessi potrebbe essere molto importante per una serie di questioni chiave nel prossimo futuro.
Questi mesi di confuso governo gialloverde non sono trascorsi invano. La loro popolarità è aumentata, non calata, né si vede all’orizzonte un’inversione di tendenza a causa di una rivoluzione copernicana della percezione politica in Italia.
Così nel frattempo ci sono due domande inevase per il Pd. Il marchio Pd ha perso valore, e forse è completamente un disvalore, come a un certo punto era diventato il marchio Dc. In un paese affamato di nuove risposte e stufo di vecchio, riproporre il Pd non sarebbe assicurazione di ostilità da parte della maggioranza dell’elettorato?
Inoltre se pure il partito scegliesse Minniti, e Minniti si facesse scegliere, il suo nome avrebbe lo stesso valore di alcuni mesi fa? Oggi il suo successore agli Interni, il leader della Lega Matteo Salvini, ha imposto un altro registro alla questione dei migranti e dell’ordine pubblico. Sarebbe ora più difficile argomentare dicendo: avevo fatto tutto io e meglio.
Il problema, come sempre nella storia, è il kairos, il momento giusto per lo sviluppo degli eventi. Troppo presto o troppo tardi non funziona: come il colpo di spada in un duello, come la scelta del Papa di normalizzare oggi le relazioni con la Cina o come quando Helmut Kohl ruppe gli indugi alla fine della guerra fredda e spinse per la riunificazione tedesca.
Qualche mese fa era il momento di Minniti, ma ora? Ora e nei prossimi mesi sempre di più la questione non è l’immigrazione, di fatto risolta, ma forse l’economia. Al di là delle polemiche sulla legge di bilancio incombe una possibile recessione globale.
L’Economist gli ha dedicato l’ultima copertina e del resto le crisi in Argentina, in Brasile, Turchia, la guerra commerciale tra Usa e Cina, sempre più aspra, stanno approfondendo il differenziale di crescita tra America e resto del mondo. Gli Usa volano, con la Fed che alza i tassi di interesse per evitare l’inflazione, e Ue e Giappone con interessi sottoterra ancora non riescono a spingere una crescita spesso anemica. Inoltre secondo alcuni economisti un secondo crack finanziario in America a causa dei nuovi derivati sarebbe possibile nei prossimi mesi.
In questa situazione è difficile aspettarsi miracoli dall’attuale finanziaria. Mentre è possibile che invece comincino le proteste nel Nord produttivo contro il reddito di cittadinanza: perché i “fannulloni” meridionali devono essere pagati con i soldi delle tasse settentrionali per fare niente, anzi per avere una sinecura quando lavorano in nero?
In queste condizioni diventa sempre più facile che i gialloverdi gridino al complotto internazionale, incolpino la Ue di tutti i mali e corrano alle elezioni in un clima da presa della Bastiglia nella primavera del 2019. Allora ogni scelta sarà dettata da ricette populiste… su questo il Pd e Minniti forse dovrebbero prepararsi, sapendo che i gialloverdi su questo sono già due misure avanti.
Inoltre, se nelle possibili politiche del 2019 il Pd uscisse ulteriormente ridimensionato rischierebbe la polverizzazione. Con una caterva di funzionari e sedi da pagare e sistemare, la riduzione ulteriore dei finanziamenti pubblici al partito rischierebbe di mandare molti a casa, cosa che potrebbe causare una rivolta nel partito e ulteriori definitive spaccature. Sarebbe insomma la bancarotta fisica e politica del partito.
Prospettive simili si aprono per Forza Italia. La forza d’urto politica delle tv è molto diminuita a causa della crescita della Rete e il partito è nel caos. Difficile al momento pensare a un esito positivo che cambi la tendenza. Se entrambe le vecchie formazioni saranno sconfitte in maniera decisiva, si estingueranno, come fu per la Dc e i suoi alleati della prima repubblica.