C’è un valore in quanto accaduto in queste ore nel dibattito (confuso) circa il “numero chiuso” per l’accesso alle facoltà mediche: il valore sta nell’aver portato all’attenzione di tutti un problema molto sentito da chi opera in sanità, quello cioè relativo al compito ed al ruolo dei medici in ambito sanitario, oltre che al loro percorso formativo.
E’ vero che esiste un problema di scarsità di risorse economiche investite in sanità: siamo un Paese povero con un investimento pubblico in calo, e senza alternative tra sanità pubblica e spesa privata.
Ed è vero anche che nei prossimi anni ci si dovrà misurare con la carenza di medici (e di infermieri). Ma è altrettanto chiaro a tutti che non c’è solo un problema di finanziamento, o di numeri.
Qual è il valore nel lavoro medico e cosa va tenuto presente nel pensare a soluzioni possibili?
Pochi medici che fanno i medici – Dopo aver incautamente assimilato (senza alcuna gradualità e pensiero critico) la normativa europea relativa all’utilizzo dei medici nel sistema, che prevede la specializzazione obbligatoria per accedere al Ssn, ci siamo trovati di fronte a facoltà di medicina che sfornano un numero di laureati superiore di molto alla disponibilità delle scuole di specialità; non solo. Mancando queste ultime spesso di iter formativi pratici e adeguati, abbiamo continuato a trattare i giovani laureati (neo specializzandi) come studenti, impedendo qualsiasi forma di integrazione professionale con responsabilità nel sistema.
Le scuole di specializzazione in Europa sono professionalizzanti e prevedono l’inserimento nell’organico medico dei giovani. Compito dei medici è fare i medici: perché possano costruire “salute” devono essere messi in condizione di fare quello per cui si sono preparati.
Le reali difficoltà dei medici – McCann Health Italy ha presentato di recente i risultati dello studio internazionale “Truth About Doctors” sul ruolo del medico oggi, riportando che il fascino della professione sta ancora per oltre il 90% dei medici intervistati nel “providing care”, ovvero nel prendersi cura del paziente. Tuttavia sono in preoccupante crescita non poche criticità:
1) la paura di azioni legali (37%); 2) il peso eccessivo della burocrazia (28%); 3) turni e volumi di lavoro al limite dell’insostenibile soprattutto in certe specialità, con la conseguenza dell’uscita anticipata dal lavoro nella sanità pubblica di molti validi professionisti. 4) Un percorso professionale non meritocratico, poco retribuito, con rischio professionale elevato. 5) un rapporto sempre più conflittuale con gli amministratori che governano il sistema, che sembrano perseguire uno scopo diverso da quello dei medici (15%).
Quest’ultimo dato sta diventando molto rilevante: l’ambiente dove i medici operano non sembra premiare chi si dedica alla cura, privilegiando obiettivi di sistema lontani dalla realtà (infinite miniriforme di sistemi sanitari regionali, più preoccupate del consenso politico che di definire obbiettivi sanitari).
Per questo occorre, senza pregiudizi, cogliere l’occasione per riscommettere sulla professione, in un momento in cui la complessità dei pazienti che richiede tempo, collaborazione, disponibilità alla condivisione, pluricompetenze, rende la sfida dell’assistenza più difficile.
Curare infatti non e più solo l’atto di un singolo, ma richiede l’integrazione tra competenze diverse e ruoli diversi. È quindi un problema non solo organizzativo, ma anche culturale. Curare il paziente è ancora un’esperienza reale e positiva, capace di sostenere e rimotivare la fatica del lavoro quotidiano per molti professionisti. Ma per reggere la sfida cosa occorre urgentemente cambiare?
Qualunque decisione si prenderà sul numero chiuso, sarà inconcludente senza affrontare i reali nodi della professione.