Monaci, non Trattati

La rappresentanza politica oggi è in crisi e questo ha vaste conseguenze sul sistema politico e istituzionale, sia in Italia che in Europa. Da dove si può ricominciare? ANTONIO INTIGLIETTA

Le recenti vicende che hanno segnato la politica nazionale ed europea mi inducono a riconsiderare alcune provocazioni per formulare una riflessione adeguata su quanto sta accadendo in Italia e, più in generale, nel Vecchio Continente. Tutti oggi — chi più, chi meno — siamo preoccupati sulle sorti e sulla tenuta dell’attuale esecutivo, nonché sullo scontro frontale in atto tra l’Italia e l’establishment politico-istituzionale dell’Unione Europea. Si rischia, così, di rimanere condizionati dalla reazione degli uni e degli altri, senza cogliere realmente cosa stia succedendo.

In occasione dell’ultimo Meeting di Rimini, mi ha colpito la dichiarazione rilasciata dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri, Giancarlo Giorgetti. L’esponente della Lega ha evidenziato la necessità di avviare un ragionamento complessivo sulla crisi dell’attuale sistema democratico e istituzionale, con l’obiettivo di tracciare una forma più coerente e funzionale della rappresentatività politica.

In effetti, è in atto una crisi del sistema rappresentativo, istituzionale e democratico, aggravata dalla difficoltà vissuta dai partiti politici tradizionali europei ormai ridotti ai minimi termini: dalla Spagna alla Francia, dall’Austria alla Germania e all’Italia. Anche la crisi della democrazia e della rappresentanza sembra essere segno di quel cambiamento d’epoca di cui parla Papa Francesco.

Negli ultimi decenni, ciò che è venuto meno è il tradizionale principio della rappresentatività politica, che ha determinato, a sua volta, il declino delle istituzioni democratiche così come le abbiamo conosciute. Era stato Edmund Burke — uno dei più fini pensatori, politici e scrittori del Settecento — a chiarire, nei suoi scritti, che la funzione sociale della rappresentanza politica non fosse “giuridica”, ma molto di più: essa implica, infatti, un rapporto fiduciario tra il popolo e il suo rappresentante e, per sua natura, tale legame non può che nascere da un comune sentire, da una condivisione che trae ispirazione da ideali e valori.

Il livello nobile della rappresentanza così definito da Burke non riduce la politica alla mera negoziazione di un contratto; in questo caso, la legittimità verrebbe misurata solo in funzione del rispetto, da parte dei due contraenti, di talune clausole. La rappresentanza politica definisce, invece, un mandato fiduciario totale ai propri rappresentanti, basato sulla condivisione di una comune visione della vita e della società propria di una comunità, di un popolo, di una nazione. In quest’ottica, possiamo intuire bene l’importanza assunta dal Parlamento e dal Governo, inteso come espressione delle camere. Il rappresentante politico ha, infatti, una delega globale da parte dei suoi elettori, ma nel contempo è legato a un ideale, a una storia, a una comunità. Una concezione di questo tipo costituisce un antidoto alla deriva clientelare della politica, che nella sua forma più deteriore, la corruzione, ha decretato la fine della cosiddetta Prima Repubblica.

Oggi, a distanza di qualche secolo dalla “lezione di Burke”, è sempre più evidente che la rappresentanza non consiste più in un legame fiduciario basato su un ideale comune. È venuto meno il rapporto di delega tra persone e istituzioni, così come la centralità dei corpi intermedi protagonisti della vita culturale, economica e sociale di un Paese. Gli elettori, per esempio, riconoscono il proprio voto solo a chi ritengono capace di risolvere alcuni particolari problemi percepiti, più o meno, come prioritari. Vi è, in quest’ottica, un rapporto diretto tra l’individuo e il leader; le comunità e le sue forme di organizzazione sociale risultano, così, secondarie se non, addirittura, dimenticate. Ne consegue, in Italia, che l’attuale alleanza di governo non sia altro che la somma di mediazioni e di accordi che ciascun partito ha condiviso con il proprio elettorato. Questa particolare tendenza ha evidentemente svuotato di significato il ruolo del Parlamento, generando un rapporto pressoché diretto tra chi guida il Governo e il popolo.

La stessa crisi di senso e di significato è evidente anche a Bruxelles. Qui sono naufragati gli ideali e gli scopi che ispirarono la nascita dell’Ue: il grande progetto europeo sorto dopo la Seconda guerra mondiale è, oggi, mortificato da un “ammontare” di interessi rappresentati, singolarmente, dalle diverse nazioni. “L’età della cavalleria è finita. Quella dei sofisti, degli economisti e dei contabili è giunta; e la gloria dell’Europa giace estinta per sempre”, profetizzò lo stesso Burke in tempi non sospetti.

È, insomma, la mancanza di visione e idealità la principale causa della crisi della democrazia, in Italia come in Europa. È la crisi di un popolo che non c’è più o che c’è sempre meno. È la rinuncia al comune sentire che cede il passo a una semplice somma di interessi individuali che, nelle istituzioni comunitarie, sono frutto di estenuanti contrattazioni su trattati, norme e regolamenti che non corrispondono, realmente, alle esigenze della gente.

In che modo possiamo intervenire per non assistere, attoniti, a questa condizione di confusione e di instabilità? In molti ritengono che cedere alla tentazione — o meglio, all’illusione — di investire di questo compito un determinato leader o un progetto politico sia la strada più comoda, con cui ognuno rinuncia alla propria responsabilità, cioè al proprio cambiamento. Al contrario, penso che, oggi, siamo tutti chiamati a riscoprire le ragioni e gli ideali per cui valga la pena vivere, lavorare e costruire una società più giusta e più vera. È necessario ripartire dal cambiamento di ogni singola persona, dalla sua ricerca di senso e di significato, dalla sua disponibilità a cambiare e a concepire sé stesso e il proprio lavoro, come un contributo concreto per la creazione di un bene comune. Urge che, dal basso, rinasca una soggettività propositiva, capace di generare una rete di socialità e di imprenditorialità basata non sul proprio egoistico tornaconto, ma sulla costruzione “di una civiltà che nasca dalla verità e dall’amore”, come ha affermato Papa Giovanni Paolo II al Meeting di Rimini del 1982 e ribadito Papa Francesco nella sua enciclica Laudato si’ e nell’intervista rilasciata al Sole 24 Ore.

Recentemente, mi hanno molto colpito le celebrazioni dei 110 anni di CMB, che sono state vissute dagli organizzatori come un recupero delle proprie origini che chiariscono, oggi, il senso e lo scopo della cooperativa. È proprio la riscoperta dell’inizio — la ragione per cui vale la pena vivere — il punto da cui ripartire. Può sembrare poco, visti i tempi in cui viviamo, ma l’esperienza del monachesimo ci ha dimostrato che da un impercettibile cambiamento dell’io, colpito dalla fede cristiana, è nata quella grande civiltà europea di cui, oggi, abbiamo smarrito l’identità, insieme al suo desiderio di contribuire alla costruzione di un mondo migliore.

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