A volte l’argento vale anche più dell’oro. L’oro va benissimo, intendiamoci, per il vecchio Kimi Raikkonen, che a fine carriera (siamo ormai quasi agli anta, come Valentino) ieri in Texas ha messo in riga il gotha della formula 1 e ridato lustro al Cavallino bistrattato dagli errori di Vettel. E non stiamo qui ad amarcord tutte le volte che l’azzurro sul gradino più alto del podio iridato ha fatto esplodere il nostro popolo di gioia. Si gioca per vincere, e non credo che ci sia ipocrisia più grande del decouberteniano e massonico “l’importante è partecipare”. Però…
Però guarda cosa dice Anna Danesi, ventiduenne centrale della nazionale femminile di volley, un metro e novantotto di brescianità: “A mente fredda sono sicura che questa medaglia la vedrò d’argento solo esternamente perché al suo interno in realtà è tutta d’oro”. L’argento, s’intende, è quello del secondo posto mondiale dopo la sconfitta per un pelo in finale con la favorita Serbia. Un pelo per davvero: un pallata che poteva cadere di là, invece è caduta di qua. Ma non è per quel pelo che l’argento ci ha regalato emozioni inarrivabili, un senso di attaccamento affettivamente carico, un tifo tenero, un orgoglio gentile, una fierezza mite e intensa. E’ vero o no? Tutto diverso da quanto ci è occorso con i pur bravissimi colleghi maschi, partiti come furie, acclamati come vincitori da stuoli di commentatori già issati sul loro carro prima del tempo, e poi trovatisi con le ruote a terra. Lì era tutta un’esaltazione bella ma esteriore. Come un entusiasmo senza fascinazione.
E in cosa consiste questa fascinazione irradiata dalle pallavoliste azzurre, che ci ha raggiunti ed emozionati?
Si può dire: sono giovanissime. Ragazzine. Età media 23 anni, Paola Egonu ne ha 19, per dire. Giovanissime protagoniste di eccellenza in un Paese a torto o a ragione definito di vecchi.
Si può anche dire: sono alte, più delle vichinghe attese on the beach da bagnini romagnoli poco convinti dal motto donna nana, tutta sana. In un paese dove per fare il militare non dovevi avere statura inferiore a 156 centimetri, quella assai modesta di sua maestà re Vittorio. Insomma una donna alta fa e fa fare sempre la sua porca figura.
Si può anche introdurre l’argomento melting pot, insomma la squadra è italiana, sì, non è esattamente multietnica ma è multicolore. Due eroine sono diversamente bianche ma italianissime (quasi quattro metri di roba in due): Paola Egonu è nata a Cittadella da genitori nigeriani e Myriam Sylla a Palermo da genitori ivoriani. Da tener presente, tanto per non star lì a discutere a capocchia di integrazione e sentirsi grati per quello che ci regalano.
Si può dire tutto questo, ma soprattutto si può dire che il loro capolavoro è stata una meravigliosa Incompiuta. Come la Pietà Rondanini del vecchio Michelangelo. Come la sinfonia n. 8 del giovanissimo Schubert, coetaneo delle artiste del volley. Aveva 25 anni quando la compose; morì trentunenne, presto, ma avrebbe avuto tutto il tempo per finirla. Chi ascolta la sinfonia di Schubert non può immaginare quale proseguimento il genio di Schubert avrebbe potuto dare a questa sinfonia, ma l’incompiutezza dell’opera gli trasmette potentemente quel senso di domanda e di mistero che sostanziano tutta la composizione.
Perdere la finale per un pelo è il capolavoro dell’incompiutezza, immagine dell’incompiutezza di tutti noi, mancanti sempre di qualcosa d’altro per sentirci realizzati: un uomo o una donna, una compagnia, un abbraccio, uno sguardo, un amore, un senso; immagine di noi pungolati da un’ombra di tristezza a vigilare sulla nostra ferita, e a non smettere di chiedere e lottare, e insieme confortati dalla dolcezza del desiderio di bene totale che fa pregustare un destino buono.
Un bene che non possono fare le nostre mani. Neanche la manona denunciata da Craxi, men che meno la manina evocata da Di Maio. E neanche, ahimè, le manine-manone magiche delle nostre campionesse. Che così ci hanno regalato ben più che una schiacciatona vincente.