Quando la coscienza comune non si arrende

Il comune di Mosca aveva vietato la manifestazione a ricordo delle vittime del comunismo che avviene annualmente davanti alla Lubjanka, ma poi ha fatto retromarcia. GIOVANNA PARRAVICINI

C’è sempre il rischio di trasformare un avvenimento in “rituale”, perdendo la memoria del suo significato e riducendolo ideologicamente. Gli imprevisti della vita e le contraddizioni della storia, peraltro, offrono buone occasioni per verificarne l’autenticità. Com’è stato quest’anno per un appuntamento ormai divenuto tradizione, la manifestazione promossa da Memorial a Mosca, in tutta la Russia e anche all’estero per “Restituire i nomi” alle vittime delle repressioni sovietiche.

Il 30 ottobre la Russia celebra la giornata della “Memoria delle vittime delle repressioni politiche in Urss”, una ricorrenza nata per iniziativa degli stessi detenuti politici nei lager di Perm’ e della Mordovia nel 1974 e ratificata nel 1991 dal governo russo, che ha introdotto questa giornata nel calendario statale. Proprio per questo motivo, la data ha un duplice significato, di memoria di tutte le vittime ma anche di battaglia per la dignità umana e la libertà, e di vittoria sull’arbitrio e la violenza. Dal 2007, alla vigilia di questa giornata la Fondazione Memorial organizza nel centro di Mosca, di fronte al carcere della Lubjanka e accanto a un masso proveniente dal lager delle Solovki – luogo-simbolo delle repressioni – un’azione pubblica che prevede la lettura dei nomi di quanti sono stati fucilati a Mosca, per restituire loro la memoria che il totalitarismo ha tentato di cancellare.

Per molti, ormai, andare in piazza Lubjanka il 29 ottobre, deporre un fiore accanto alla pietra, accendere un lumino, prendere il proprio foglietto con il nome e qualche scarna riga biografica di una delle decine di migliaia di vittime, e mettersi in fila per attendere il proprio turno di leggerlo, insieme a un popolo di giovani, adulti, anziani, adolescenti, bambini che si sussegue in un’impressionante processione dalle 10 alle 22 è diventato una consuetudine, un gesto morale che si rinnova di anno in anno.

Ma a rimetterci davanti a tutta la portata di questo gesto è stato l’improvviso veto delle autorità comunali di Mosca – giunto a dieci giorni dalla manifestazione – a motivo dei lavori pubblici che da mesi si stanno svolgendo in piazza Lubjanka. Fino a quel momento erano stati ricevuti tutti i necessari permessi delle forze dell’ordine, oltre all’assicurazione delle autorità che nella data stabilita il luogo sarebbe stato accessibile per la manifestazione.

Nel comunicato-stampa immediatamente diffuso da Memorial lo stesso 19 ottobre mi ha colpito l’accento posto su due aspetti che al momento mi sono sembrati quasi secondari rispetto alla gravità del fatto: in primo luogo, l’esigere dai funzionari del Comune delle scuse nei confronti della società civile. Chi si preoccupa oggi di chiedere o esigere delle scuse? Tanto più in ambito pubblico, sociale e politico? Si vogliono, pragmaticamente, dei risultati, il rapporto con l’interlocutore non interessa a nessuno. La richiesta di Memorial mi ha riportato a quella stessa “cultura del samizdat“, alla coscienza civica del dissenso che non si rassegna a non trattare e a farsi trattare da persona umana, a cui si debbono scuse, a cui si deve rendere ragione, e che è pronta ad entrare in dialogo, in dibattito con chiunque, certa che queste motivazioni – che sono inscritte nella natura umana – possano essere ascoltate e tenute in conto anche da chi ha il potere.

Sebbene Memorial stia combattendo da anni su vari fronti una battaglia quotidiana con le autorità che metterebbero volentieri a tacere questa voce scomoda, non si è mai riusciti a ridurlo ad “agente straniero” (come miravano le leggi riguardanti chi riceve finanziamenti dall’estero), o a togliergli la sua posizione di espressione di una precisa coscienza civica: le scuse – sottolinea infatti il comunicato stampa – sono dovute “non solo e non tanto agli organizzatori, quanto alle migliaia di persone che sostengono questa azione e vi partecipano”, perché “la pietra delle Solovki è il più antico monumento del paese alle vittime del regime totalitario, eretto il 30 ottobre 1999 con il concorso della società civile, di associazioni pubbliche e delle autorità comunali e statali”.

Proprio di qui nasce anche il secondo aspetto che mi ha stupito nel comunicato di Memorial dopo il veto posto alla manifestazione, l’intransigenza sul fatto che dovesse svolgersi proprio alla “pietra delle Solovki”: “Sarebbe altrettanto impensabile – si legge infatti nel comunicato – che sostituire la cerimonia della deposizione dei fiori sulla tomba del Milite ignoto nei Giardini di Alessandro con un altro rituale”. Solo chi conosce il pathos del sacrificio e della vittoria nella seconda guerra mondiale vissuto oggi in Russia può capire tutta la portata di questo paragone.

Protagonista della battaglia, attraverso Memorial, è dunque la società civile russa; e l’episodio di questi giorni chiarisce anche un terzo aspetto fondamentale, e cioè che combattere si può e si deve, senza però perdere la speranza nel proprio interlocutore, come – tra l’altro – è avvenuto in questo caso. In un incontro proposto dalle stesse autorità del comune di Mosca, lunedì 22 ottobre è stata concordata con i responsabili di Memorial la possibilità di svolgere la manifestazione pubblica secondo la data e gli orari fissati, nel luogo stabilito. Naturalmente, molti possono essere stati i fattori che hanno giocato in questo contrordine dall’alto, ma è certa la vittoria di una coscienza civica che non si arrende ad abdicare alla propria umanità.

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