Benvenuti nella campagna elettorale di mid-term. L’America, quella vera, adesso fa sul serio. Per settimane si è giocato, ora la ricreazione è finita. Quantomeno fino al 6 novembre. Poi si vedrà. E come in un film già visto mille volte, torna in scena – puntuale come morte e tasse – la paura. Questa volta sotto forma di pacchi bomba recapitati a mezza America che conta, da Barack Obama a Hillary Clinton, da George Soros alla sede della Cnn fino al governatore di New York. Come ai tempi delle lettere all’antrace. E a pochi giorni non solo dal voto di medio termine, ma anche dalla maratona di New York, evento che richiama corridori da tutto il mondo e che dall’11 settembre 2001 rappresenta una delle date cerchiate in rosso sul calendario dei servizi di sicurezza: quest’anno si corre il 4 novembre. Due giorni dal voto.
Chi ha tutto da guadagnare da una strategia della tensione interna a fine elettorale? Paradossalmente, tutti. Ma la questione, almeno a mio modesto avviso, non è tanto bipartisan, se vogliamo guardare il lato del cui prodest: è strutturale, intesa come un necessario salto all’indietro nel rassicurante ventre della paura. Sembra un parossismo, non lo è. Guardate questo grafico, è il sunto dell’annuale sondaggio sulle paure degli americani stilato dalla Chapman University di Orange, in California, la più grande e prestigiosa università privata dello Stato. Vedete il terrorismo, fra le prime dieci risposte? No. In compenso, oltre ai timori legati a malattie e decessi di congiunti, ci sono parecchi temi ambientali, decisamente invisi a molte lobby di potere e allo stesso Donald Trump. E, soprattutto, due timori legati all’economia: non avere abbastanza soldi per far fronte al futuro e spese mediche troppo care.
Insomma, i tipici timori della middle class. La stessa che ha votato in massa per Donald Trump e che oggi, giorno dopo giorno, comincia a prendere atto della realtà. Ovvero che, a conti fatti, finora ad avere beneficiato massivamente e in maniera strutturale delle politiche presidenziali sono state Wall Street e le grandi corporation. Ovvero, le odiate élites, l’establishment che la nuova Casa Bianca doveva combattere e redimere. E che, invece, pare più in forma che mai. Non a caso, Donald Trump a giorni annuncerà un piano di riduzione fiscale incentrato proprio sulla classe media: di fatto, la presa d’atto e la confessione di un tradimento. Forse tardive entrambe, ma si sa, finché c’è vita, c’è speranza. E finché c’è paura, tutto è destabilizzabile e indirizzabile.
Il sistema pensionistico Usa è al collasso, lo sanno tutti. I fondi pensione sono sottocapitalizzati in maniera irreparabile e alcuni Stati stanno già patendo default di fatto. Inoltre, causa anche gli anni devastanti del post-Lehman, i risparmi a disposizione sono sempre meno. E, al netto della retorica di Casa Bianca e mass media, chi ha un lavoro oggi in America vive paycheck, ovvero ciò che entra se ne va via tutto in spese vive: non si riesce ad accantonare nulla a fine mese. E sempre oggi, il fardello storico dell’indebitamento per andare al college e comprare automobili comincia a presentare il conto, visto che sempre più spesso quel carico debitorio vede genitori e nonni costretti a subentrare, erodendo a monte i risparmi di famiglia e la garanzia dello storico effetto welfare dei parenti, l’ammortizzatore sociale per eccellenza nei momenti di crisi.
Ecco perché l’America del miracolo economico ha paura del futuro: perché non vede un futuro, vive di illusioni presenti. Come il rally di Borsa ad esempio, visto che l’americano medio ha investito – anche indebitandosi – più in titoli azionari, sperando di capitalizzare al massimo, che nel bene rifugio per eccellenza, ovvero quella garanzia a lungo termine che è la casa di proprietà. È una società mordi e fuggi, altro che l’economia strutturalmente più forte di sempre. Ora, guardate questi altri due grafici: il primo ci mostra il risultato di un sondaggio compiuto nei cinque Stati industriali per eccellenza degli Usa, l’equivalente del nostro Nord produttivo e che chiedeva conto ai cittadini comuni su come stessero impattando sulle loro finanze le politiche tariffarie di Donald Trump. Per la maggioranza, impattano negativamente. Direte voi, come mai allora non siamo alla rivolta generalizzata della classe media, sonoramente fregata a livello elettorale per l’ennesima volta? Lo spiega il secondo grafico, dal quale si evince che a oggi le politiche di stimolo fiscale volute dalla Casa Bianca a costo di un ricorso al deficit folle (vi ricorda qualcosa, ovviamente con le debite proporzioni?) stiano ancora operando un efficace controbilanciamento dell’effetto di erosione del potere d’acquisto e di inflazione interna della guerra dei dazi.
Ma quelle politiche nel 2019 cominceranno a perdere pesantemente efficacia già nel primo semestre, per sparire nel terzo trimestre: allora, ci sarà il vero redde rationem con la grande illusione trumpiana. Quindi, occorre che per allora tutto sia pronto. Cosa, ad esempio? Questo e – come vedete – chi di dovere si è già ben portato avanti con il lavoro, lasciando il parco buoi felice con il suo cerino in mano, per ora ancora invisibile e travestito da occasione del secolo per fare soldi facili. Quando si accorgeranno della vera natura di quel cadeau, sarà tardi. Come al solito.
E si tratta della stessa classe media che ha paura per il futuro e che comincia a vedere i frutti dello smantellamento del programma sanitario Obamacare, fortemente voluto da Donald Trump su pressione della lobby delle assicurazioni e delle case farmaceutiche, in seconda istanza. Ora l’americano medio è in un limbo: mezzo Obamacare è smantellato, l’altra metà esiste ancora, ma ha visto un aumento spaventoso dei premi richiesti dalle assicurazioni. E quindi ha paura di ammalarsi. E che si ammalino i suoi cari. Sia per il dolore e la sofferenza che questo comporta, sia per le spese cui si potrebbe andare incontro e a cui si potrebbe non riuscire a fare fronte. Ecco l’America vera, quella che il 6 novembre andrà al voto di mid-term. Ed ecco quindi perché appare davvero poco sorprendente questo ritorno in grande stile del terrorismo a livello interno, tramite pacchi bomba ai potenti di turno, l’effetto mediatico perfetto. E, soprattutto, una pista che lascia aperta qualsiasi possibile rivendicazione, rendendola potenzialmente credibile: Isis? Trumpiani che hanno fatto il salto di qualità nella lotta, approdando al terrorismo? Estremisti di sinistra/anarchici? Un terrorista solitario stile Unabomber? Cosa importa, l’importante è riempire edizioni del tg e pagine dei giornali. Ma, soprattutto, testa dei cittadini/contribuenti/elettori almeno fino al 6 novembre, depriorizzando quel dubbio che, giorno dopo giorno, sta insinuandosi nelle loro menti di classe media: ovvero, e se non fosse in realtà cambiato nulla?
Ma, paradossalmente, alzare la tensione e riportare il terrore in prima pagina, potrebbe anche servire ad altro. Cioè, dimostrare che Donald Trump non sa difendere il Paese dalle minacce interne e che, anzi, rappresenta esso stesso un pericolo potenziale, non fosse altro per i suoi toni e la sua retorica incendiaria. O, ancora, questa ondata di paura potrebbe garantire non solo mano libera al Presidente per uscire davvero dal programma di non proliferazione nucleare, garantendo una spinta enorme di commesse, stanziamenti e ricerca al comparto bellico-industriale e al Pentagono ma anche potenziali giustificazioni popolari sulla spinta emotiva a qualche intervento armato in giro per il mondo, se casualmente saltassero fuori “prove schiaccianti” verso i mandanti di quei pacchi bomba. Magari in Afghanistan. O in Siria. O in Iran. O, chi può dirlo, magari proprio in quell’Arabia Saudita uscita dalla sfera di controllo totale da parte di Washington e che, oggi che si trova nel mirino del mondo intero per la vicenda Khashoggi, va ricondotta a più miti consigli e atteggiamenti, stante anche il pericoloso shopping di infrastrutture navali della Cina in Israele.
Avete visto, terrorismo pret-a-porter al suo meglio, buono per ogni stagione e ogni utilizzo. L’importante è che se ne parli, almeno fino alla sera del 6 novembre. Poi, si vedrà. In compenso, dati di mercoledì, l’export extra-europeo di tutti i Paesi Ue, Italia in testa con il suo -3,7%, a settembre è crollato, la pantomima della guerra con la Cina sta funzionando per raggiungere il primo obiettivo. Siamo alla partita delle partite. Sarà lunga e piena di scorrettezze, preparatevi. E, a occhio e croce, vedrà l’Europa uscirne a pezzi. Ma, sinceramente, ce lo siamo cercato. E anche un po’ meritato.