Permettetemi una premessa, non brevissima ma doverosa, rispetto al vero argomento del pezzo. Perché comincio a pensare che la stragrande maggioranza dei commentatori economici italiani fosse assente, quando all’università spiegavano l’importanza della lettura disaggregata di un dato macro composto. Erano malati o disattenti, chi lo sa. O, forse, semplicemente sono pigri. Perché vi assicuro, è una gran rottura. Molto più semplice prendere il dato fornito dal Bea statunitense e riportarlo così com’è, limitandosi al commento di rito: ottimo, discreto, pessimo. Prendete la lettura del Pil americano del terzo trimestre diffusa venerdì, un bel +3,5%, in calo rispetto al +4,2% del secondo trimestre ma più del 3,3% atteso dagli analisti. E, comunque, anni luce dagli anemici indici di crescita europei. Direte voi, allora è vero che l’economia Usa va come un treno? Formalmente, sì. Ovvero, non andando a vedere le componenti di quel dato, negarne la forza sarebbe pregiudizievole. O semplicemente stupido. Ma quando si ha voglia di fare il proprio lavoro e si perde tempo con le componenti disaggregate e si scopre che un contributo pari al 2,07% – pari al 59% del dato ufficiale – è garantito dall’aumento delle scorte, come ci mostra il grafico, qualche dubbio sulla natura del momentum economico Usa a me viene.
Non so a voi, calcolando che si tratta di un’economia basata al 70% sui consumi. Soprattutto, quando gli investimenti fissi (CapEx) sono totalmente piatti (-0,04%), mentre import ed export sottraggono al dato finale rispettivamente il -1,34% e il -0,45%. Insomma, tra CapEx e commercio netto, l’economia Usa si è realtà contratta per l’1,83%. Cosa significa, volendo vedere la realtà per com’è e depurando quindi il dato ufficiale delle componenti negative? Semplice, il mega stimolo fiscale di Trump è ormai nello specchietto retrovisore della crescita economica. Urge nuovo stimolo, magari quello già promesso dal Presidente alla classe media in vista del voto di mid-term del 6 novembre. In compenso, sapete quale altra voce ha garantito un plus al dato ufficiale? Il +0,31% di contributo al Pil della voce Food Service Chains: in parole povere, ristoranti e fast-food. Gli americani, insomma, stanno mangiando fuori casa come non ci fosse un domani, perché il dato è solo frazionalmente distante dal +0,36% del secondo trimestre, la lettura maggiore dal 1999, come ci mostra il grafico. Ovvero, da prima dell’esplosione della bolla tech.
E il Nasdaq cosa sta facendo in questo periodo? Signori, non è sintomo di benessere diffuso, è il classico last hurrah prima dell’arrivo della crisi vera, quasi un festeggiamento fra l’irresponsabile e il malinconico del picco raggiunto dall’economia e dalle equities. E attenzione, perché il dato ci dice dell’altro, se messo in relazione al calo di clientela denunciato dalle cosiddette catene same-store di McDonald (tipo Burger King, Wendys, Chick-fil-A, Kfc e Taco Bell), giustificato dall’aumento dei prezzi e dalla competizione sempre più dura. Motivo? L’aumento della paga oraria, strombazzato da tutti i media come una grande conquista sociale dopo l’esempio dato da Amazon (il quale si è prontamente e silenziosamente rifatto, tagliando il programma di bonus) e che, ovviamente, i soggetti meno in grado di reggere il mercato scaricano sui clienti, alzando i costi. Et voilà, il miracoloso +3,5% del Pil del terzo trimestre è servito. Un po’ diverso da come vi era stato sbrigativamente comunicato dai media mainstream, cosa dite? Ora, terminata la doverosa premessa sull’economia Usa, veniamo a questo: perché come per la narrativa a stelle e strisce, anche qui da noi vi stanno raccontando un film che non esiste.
Questo grafico dovete stamparvelo nella testa, rappresenta il recente trend storico del nostro spread sul Bund e la linea Maginot di emergenza per le nostre banche, quota 400, tracciata in diretta televisiva a Porta a porta la scorsa settimana dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Giancarlo Giorgetti. Vi avevo detto che era l’ufficializzazione della fine dei 5 Stelle: bene, lo confermo. Pensate che attaccando Mario Draghi, il buon Di Maio avesse nel mirino davvero il numero uno della Bce? O chi, invece, qualche giorno prima aveva per primo lanciato l’allarme sul rischio ricapitalizzazione per i nostri istituti legato allo spread alto da Bruno Vespa, scoperchiando il vaso di Pandora di una demarcazione totale dentro al Governo su un tema a dir poco dirimente e in piena contrapposizione con la Commissione Ue sulla manovra? Mettete in fila quanto accaduto solo negli ultimi giorni e traete da soli la conclusioni.
Prima Giorgetti, poi Draghi, già di per sé un uno-due di quelli che ti lasciano al tappeto, visto che il sottofondo in onda è quella dei titoli bancari che continuano a schiantarsi a Piazza Affari. E poi? «Salveremo le nostre banche, costi quel che costi», ha dichiarato venerdì il ministro Salvini, rimangiandosi mesi e mesi di retorica sull’Europa “dei banchieri” e sui governi precedenti che hanno salvato le banche nottetempo per decreto e lasciato in miseria gli esodati, limitandosi alle salvaguardie: di fronte alla realtà, si cambia idea in fretta. Il ministro Di Maio, invece, dopo l’improvvida uscita contro Mario Draghi ha voluto raddoppiare, dicendo che per le banche non sarà stanziato «nemmeno un euro», visto che a suo modo di vedere ci sono diverse modalità per ricapitalizzare gli istituti che ne abbiamo bisogno.
Quali altre modalità? Non si sa. Tipico dei 5 Stelle. I quali, poi, hanno dovuto ingoiare a strettissimo giro di posta altri due colpi da knock-out: prima l’aperta polemica del ministro Costa contro il condono per le abitazioni abusive di Ischia contenuto nel decreto per Genova e poi l’ennesima marcia indietro rispetto alle promesse elettorali, con il via libera ufficiale alla costruzione del gasdotto Tap, decisione che ha già scatenato le ire degli elettori grillini pugliesi, i quali hanno chiesto le dimissioni di tutti gli eletti nei collegi della Regione e posto la ministra Lezzi di fronte alla dura realtà.
Il ministro Di Maio, non stanco di figuracce, ha voluto aggiungere la terza in pochi giorni: «Ho scoperto delle penali da pagare in caso di rinuncia solo dopo essere diventato ministro»: come mai allora la battaglia anti-Tap è stata fra le più rumorose della campagna elettorale? Come mai un calibro come Alessandro Di Battista, prima di andarsene per il semestre sabbatico Oltreoceano, si era speso personalmente e in maniera molto decisa sulla materia, dicendo che quei tubi non sarebbero mai arrivati a Melendugno e che li avrebbero bloccati e smantellati in due settimane? Se si sposa una battaglia a quei livelli, la materia andrebbe conosciuta bene. E sapere l’eventuale costo delle penali in caso di rinuncia – nel caso esistano davvero, questione che l’ex ministro Calenda ha messo pubblicamente in dubbio – non è proprio un cavillo per topi da biblioteca. Anzi, è prioritario per chi strombazza il suo “no” deciso e il ricorso – come criterio unico e universale di giudizio per tutte le opere pubbliche, più o meno cantierate – al rapporto costi-benefici, cosa ne dite?
Signori, sta per cambiare tutto. Drasticamente. E dopo la pagliacciata di Standard&Poor’s, classico caso di un colpo al cerchio e uno alla botte e il regalo di Moody’s (entrambi gentili cadeau degli Usa al Governo amico), appare sempre più chiara una dinamica duplice. Primo, la Lega, per quanto rivendichi rapporti con la Russia sempre più stretti e sul piano anche ideale, ha un patto più o meno scritto con gli Usa: non a caso, il ministro Salvini ha recentemente fatto visita all’ambasciatore statunitense, si dice proprio per rassicurarlo dopo alcune sue uscite troppo filo-Putin e anti-sanzioni durante la trasferta moscovita. E, soprattutto, il Dipartimento di Stato Usa all’inizio dell’estate aveva fatto sapere per via ufficiale – e con tanto di tweet al riguardo – che il gasdotto Tap era di fondamentale importanza per l’indipendenza energetica italiana ed europea proprio dalla Russia, anche come contrasto a Nord Stream 2. Detto fatto, il ministro Salvini si era sempre detto favorevole all’opera. E, soprattutto, oggi l’opera si farà. Ufficialmente. Con timbro del premier Giuseppe Conte, uno che con Donald Trump ha un rapporto privilegiato e nonostante l’enorme scorno politico-elettorale per i Cinque Stelle. Il cui consenso, sta cominciando a sciogliersi come neve al sole.
E la seconda parte della dinamica in atto, prevede altre due mosse. Primo, portare lo scompiglio interno al Movimento di Grillo, fino a mettere apertamente in discussione la leadership di Luigi Di Maio e indebolirne il potere contrattuale in sede di Consiglio dei ministri. Secondo, attendere il 10 novembre. Perché al netto della manifestazione di sabato contro la giunta di Virginia Raggi tenutasi a Roma, segnale decisamente allarmante visto che in piazza c’era la stessa “gggente” che i grillini millantano di rappresentare, quel giorno si saprà se la sindaca verrà condannata per la vicenda Marra. Se sì, le sue dimissioni appaiono molto probabili, non fosse altro in ossequio al codice morale e di comportamento degli amministratori a 5 Stelle, vista anche la già lunga sequela di voltafaccia del Movimento sui punti fermi da quando è al potere. A quel punto le urne anticipate saranno pressoché certezza per la capitale e il ministro Salvini vede la conquista di Roma di un suo candidato – diretto o di coalizione – come lo scacco matto che ancora manca alla sua ascesa apparentemente inarrestabile a leader incontrastato del centrodestra nazionale.
Cadrà il Foverno? Forse no. Anzi, quasi certamente no. Ma certamente cadranno i veti 5 Stelle sulla Manovra, ciò che vuole Giorgetti e insieme a lui anche l’ala più dialogante e raziocinante dell’esecutivo, si pensi al duro attacco contro l’ambiguità di una parte di alcuni ministri sulla questione euro ed Europa lanciato dal ministro Moavero alla festa de Il Foglio nel weekend o la difesa a spada tratta della Bce fatta dal ministro Tria allo stesso uditorio. A quel punto, il dialogo con la Commissione Ue potrà essere riannodato e certi toni andranno in soffitta, così come certe personalità di governo e parlamentari troppo ingombranti e francamente impresentabili nella loro patetica sete di notorietà, a rischio del ridicolo personale (obiettivo in molti casi già ampiamente raggiunto e superato) e del default tecnico del Paese.
Di fatto, come auspicato da Mario Draghi nella conferenza stampa dopo il board di giovedì scorso, il dialogo fra Roma e Bruxelles troverà nuova linfa e rinnovata fiducia. E attenzione, perché dietro l’angolo c’è la mina antiuomo più letale per i grillini. Il reddito di cittadinanza, infatti, non è inserito in Manovra, ma in un collegato e, salvo battere con un record storico una consuetudine ormai cristallizzata delle nostre dinamiche parlamentari, l’esame e il voto di tale testo solitamente non ci mettono meno di quattro, cinque mesi. Il che significa che i 780 euro non partiranno dal 1 gennaio, bensì più tardi. Forse dopo le Europee, a meno di blitz parlamentari al limite del regolamento. I quali, però, potrebbero di colpo non trovare i numeri, se l’alleato leghista dovesse non essere d’accordo. E in tal senso, vi invito – se non lo avete già fatto – a leggere l’intervista pubblicata ieri dal Sussidiario.net al sottosegretario ai Trasporti, il leghista Siri.
Attenzione ai colpi di coda dei grillini feriti, perché il loro grado di irresponsabilità è ormai noto e potrebbero tentarle tutte, prima di accettare la dura realtà dell’inizio della loro parabola altrettanto meteoricamente discendente e il ritorno all’alveo naturale dell’opposizione nichilista e iconoclasta per postura demagogica. E la questione banche è dannatamente seria e urgente, ancorché non ancora da allarme rosso: che sia su questo argomento di importanza sistemica per la tenuta del Paese che possa nascere una maggioranza trasversale e alternativa?