Perché l’educazione non renda stupidi

Perché nelle scuole cattoliche gli studenti imparano meglio e di più che in quelle statali? Il motivo è una passione diversa all'educazione dei giovani

Le scuole private, nel nostro Paese gestite in origine per lo più da ordini religiosi, sono viste, oltre che come il luogo dell’educazione elitaria, anche come ambienti in cui ottenere un surplus di aiuto per i figli in difficoltà, vuoi per carenze nell’apprendimento, vuoi per problemi comportamentali. Luoghi insomma in cui oltre al rendimento scolastico si può sperare in un’attenzione più globale ai ragazzi (se non per convinzione, almeno come servizio aggiuntivo per una retta salata). Tante famiglie hanno mandato i figli nelle scuole non statali per il desiderio che fossero curati di più, perché fosse voluto loro anche più bene. 

Ora sappiamo che se molte scuole private sono ai vertici per i risultati scolastici dei loro studenti, lo si deve anche alla cura di quegli aspetti che sono sempre stati considerati ai margini della didattica. Chi conosce questi ambienti sa che non si tratta tanto della disciplina (per quanto l’intento “moralizzatore” sia stato piuttosto diffuso). Ciò che molte famiglie hanno obiettivamente trovato è uno sguardo verso i ragazzi che tiene conto delle loro caratteristiche, della loro personalità, dei loro desideri e aspirazioni.

Le neuroscienze, e perfino le ricerche empiriche condotte da economisti, stanno confermano in modo netto quanto il processo di apprendimento dipenda in tanta parte da un “assetto” umano, cioè da caratteristiche di personalità e che queste possono essere educate. Pensiamo a quanto la memoria sia legata a meccanismi emotivi di piacere o, in negativo, di dispiacere. È ormai dimostrato che la memoria di un contenuto appreso è anche ricordo dell’emozione che è stata provata durante l’apprendimento di quel contenuto. Un sentimento negativo, come paura di sbagliare, senso di colpa o di inadeguatezza, porterà a difendersi anche dal ricordo del contenuto. Da qui semplicemente viene l’esigenza di un educatore non giudice ma alleato del ragazzo contro l’errore. In sostanza, quello che è sempre più chiaro è che non c’è atto della vita mentale che non sia nello stesso tempo comprensione ed emozione.

Oppure pensiamo ai lavori sui character skill di molti studiosi, tra cui il premio Nobel per l’economia James Heckman, che mostrano quanto elementi come estroversione, amicalità, coscienziosità, stabilità emotiva, apertura mentale (dimensioni che un gruppo di ricerca italiano ha espresso con altre articolazioni, come capitale psicologico, autoefficacia, motivazione) siano il fattore determinante anche nell’acquisizione di conoscenze, oltre che per la possibilità di non interrompere gli studi. 

Se si aggiunge poi il fatto che le innovazioni tecnologiche stanno trasformando rapidamente anche il mondo del lavoro e che quindi sta diventando sempre più decisiva la capacità di imparare più che le conoscenze in sé, si capisce quanto il mondo della scuola sia chiamato a una rivoluzione.

C’è un “nota bene” che però non va trascurato. Quello che empiricamente è stato compreso in tante esperienze didattiche (statali, paritarie, private), acquisito attraverso le neuroscienze o, ancora, nella ricerca socio-economica, disegna in modo netto una certa idea di essere umano che non è inutile tenere come faro anche di una azione didattica. Quello che emerge è la dinamica ultimamente positiva della natura umana, che tende irriducibilmente a migliorarsi, a crescere, a cambiare; è la fiducia nella capacità della ragione di conoscere la realtà, fiducia che apre la ragione alla sua creatività e fa scoprire il suo essere in relazione; un’esperienza di conoscenza non solo possibile, ma anche in grado di rendere le persone più se stesse. 

Per questo, conoscere è imbattersi in qualcosa di nuovo, di reale, che si scopre essere “per noi”. Conoscere fa sentire “più io” e ci cambia. Per questo va fatto scoprire il lato attrattivo della conoscenza (quel grande educatore che è stato Luigi Giussani diceva che la logica della conoscenza è imparare da una simpatia ultima), che non è banalizzazione, ma il gusto di sentirsi completare da ciò che si conosce. E per questo va “spezzato il pane” del sapere perché sia digeribile da tutti gli stomaci. Solo così l’esperienza della conoscenza può cambiarci, farci progredire.

Una volta che vengono affermate le linee culturali sottese alle scelte didattiche, in realtà il lavoro a scuola è tutto da cominciare.

Sappiamo quanto progresso umano ha portato nella storia un approccio positivo alla consapevolezza della grandezza della nostra natura umana. Ma sappiamo quanto c’è da fare perché questa antropologia positiva si affermi e diventi utile anche in un cambiamento d’epoca come quello che stiamo vivendo. Quanto ancora c’è da fare per dare ai ragazzi gli strumenti per scoprire chi sono, che sono fatti per conoscere e così crescere? 

Come ci accorgiamo se quello che insegniamo cambia i nostri studenti, in particolare la loro capacità di ragionare, al di là di ciò che imparano? Ma poi: siamo in grado di insegnare a ragionare? E a essere curiosi? Si può sostenere la natura curiosa dei ragazzi? Quanto tempo dedichiamo all’ascolto delle loro domande? Sappiamo spingerli a chiedere? Come motiviamo la fatica di conoscere? Quale esperienza fanno i nostri studenti di questo “val la pena”?

Assumere per buone queste domande può lasciare intravvedere la rivoluzione che aspetta la scuola nei prossimi decenni. A meno che non ci si voglia rassegnare, come disse Helvetius che “gli esseri umani nascono ignoranti, non stupidi: li rende tali l’educazione.

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