Quando Mario Draghi fu designato al vertice della Bce, nel 2011, il Financial Times parlò di “un non-italiano a Francoforte”. Una sintesi di indubbia efficacia, benché Draghi approdasse all’Eurotower dopo cinque anni alla guida della Banca d’Italia. Si sarebbe tentati di replicare la formula, sette anni dopo, per la nomina di Andrea Enria a capo della vigilanza bancaria presso la stessa banca centrale: una sostanziale promozione dal vertice dell’Eba, l’originaria autorità bancaria creata dall’Ue (da tutti i 28 paesi di allora) per ricostruire la supervisione dopo il collasso dei mercati nel 2008.
L’indicazione è giunta ieri dal Consiglio direttivo della Bce – tuttora presieduto da Draghi fino al novembre 2019 – e va a definire la successione della francese Danièle Nouy, negli ultimi cinque anni prima presidente del Consiglio di supervisione dell’Unione bancaria. Negli ultimi giorni una tappa consultiva presso una commissione dell’europarlamento aveva fatto emergere un inatteso testa a testa fra Enria e il vice-governatore irlandese Sharon Donnery e – soprattutto – la freddezza del supporto politico italiano: segnalata dal non-voto dell’eurodeputato italiano, Marco Zanni (passato da M5S a Lega). Enria ha visto invece confermate le attese della vigilia nel voto – formalmente segreto e senza esito numerico ufficiale – del “consiglione Bce”: formato dai 6 membri del comitato esecutivo e dai governatori dei 19 paesi dell’eurozona. Pochi dubbi sul fatto che Draghi e Ignazio Visco, governatore Bankitalia, abbiano votato per Enria. Vedremo se le indiscrezioni forniranno elementi sui voti degli altri banchieri centrali.
La prima ragione, comunque, per riproporre per Enria l’etichetta di “non italiano” è una prima chiave interpretativa della svolta di ieri. È infatti probabile che la sua base di consenso abbia beneficiato dell’esposizione mediatica come “tecnocrate italiano in Europa sgradito al nuovo Ggoverno italiano”. Se Enria ha incassato la nomina – e con lui il suo storico mentore Draghi – vi sono d’altronde più indizi di un passo tattico-strumentale da parte dell’eurocrazia in questo momento di “muro contro muro” con l’Italia su temi finanziari. E sullo sfondo di una campagna elettorale ormai accesa verso il rinnovo dell’europarlamento.
Resta il fatto che il Governo giallo-verde non ha detto o fatto nulla per sostenere questa nomina “italiana” in Europa (per certi verso la prima del grande rimpasto previsto la prossima estate). Neppure l’esito dell’ultimo stress test condotto dall’Eba su 118 banche italiane ha fatto filtrare segnali minimi di “vicinanza” di Roma a Enria: nonostante la grandi banche italiane siano risultate promosse. Ma è difficile che l’espressione “stress test Eba” si stacchi in concreto dal primo test: effettuato nel dicembre 2011 già sotto la guida di Enria, nominato su forte pressing di Draghi, nella sua veste di presidente del Financial Stability Board e di candidato forte per la Bce. Nessuno – tanto meno chi governa oggi in Italia – può dimenticare facilmente “l’apocalisse nell’apocalisse” delle grandi banche italiane bocciate e obbligate a onerosi aumenti di capitale (7,5 miliardi solo per UniCredit) quando lo spread a quota 575 colpiva alle spalle il sistema creditizio italiano e ne preparava gli avvitamenti successivi. Perfino Il Sole 24 Ore è giunto in seguito a pubblicare analisi problematiche sul ruolo di “poliziotto cattivo” interpretato da Enria: fino al 2011 un anonimo dirigente della Banca d’Italia nel settore regolamentazione finanziaria; dopo il 2011 impopolare capo “non italiano” di un’autorità europea che ha mantenuto un suo peso formale anche quando il timone della vigilanza bancaria è passato alla Bce.
Turbolenze euro-politiche e risiko dei grandi organigrammi europei. Su entrambi i piani, non è paradossale affermare che l’establishment Ue da un lato e Draghi dall’altro hanno “scippato” il Governo Di Maio-Salvini di una poltrona europea. E quella assegnata ieri ad Enria è di alto livello: era tenuta da una francese e in teoria può avere prima e ultima parola su tutte le banche dell’eurozona. Quelle italiane hanno fatto ampia e dura esperienza del “metodo Nouy”, cioè della leadership franco-tedesca nell’Unione bancaria. Sulla carta nulla vieta ora a Enria di andare a frugare fra le Landesbanken tedesche o perfino in Lussemburgo. In pratica è difficile che le cose vadano così e in ogni caso la “leva Enria” avrà due condizionamenti.
Sarà anzitutto una leva nelle mani di Draghi, non del Governo giallo-verde (lo diventerebbe invece per un ipotetico “Governo Draghi”) e la modulazione della severità o della flessibilità regolamentare verso le banche italiane sarà sempre “monitorata” dal Presidente uscente della Bce: lo stesso che negli ultimi anni ha gestito diplomaticamente la politica monetaria espansiva a sostegno del credito bancario e dei debiti pubblici dei paesi del Sud Europa. In secondo luogo, Enria lascia libera la prima poltrona all’Eba, che la Brexit ha obbligato al trasloco da Londra a Parigi. Sarà quindi curioso vedere che cognome e che passaporto avrà il nuovo capo di un’authority che manterrà il suo ruolo di “contrappeso minore” alla Bce nella vigilanza bancaria europea e che sarà a tiro di schioppo dall’Eliseo e dalla Banca di Francia.
Con lo spostamento di Enria – deciso in via tecnocratica a Francoforte – la guida dell’Eba (che dipende da Bruxelles, da commissari e governi) entra quindi nell’assestamento della governance economico-finanziaria Ue, che ruota ancora attorno alla Bce: presidenza sostanzialmente di pari livello a quella della Commissione Ue (all’interno della quale spiccano da sempre l’Antitrust e gli Affari Economici, in attesa della possibile creazione di un “ministro delle Finanze Ue”).
Ancora a metà ottobre – prima delle due sconfitte locali della “coalizione Merkel” in Baviera e Assia – sembrava prendere forma uno schema: a Bruxelles un tedesco (in prima battuta lo spitzenkandidat bavarese del Ppe, Manfred Weber) e a Francoforte un francese (l’attuale capo della Banca di Francia, François Villeroy de Galhau o – in un’opzione più geopoliticamente intrigante – il direttore generale del Fmi, Christine Lagarde). Il preannuncio del ritiro della cancelliera tedesca ha ora reso più confusi tutti gli scenari, mano a mano che si avvicina al voto di fine maggio per l’europarlamento. Sicuramente Merkel farà di tutto per essere ancora in sella ai tavoli di trattativa Ue: ma, ammesso che ci riesca, non avrà golden share piena sulle nomine europee. Sarebbe tuttavia un errore far riferimento su meccanismi politico-istituzionali ancora poco tempo fa consolidati in Europa e nei Paesi membri.
Una Merkel indebolita, non più alla guida della Cdu, non necessariamente vorrà dire più spazio alla Bundesbank e alle sue possibili mire sulle poltrone europee. E l’asse Macron-Merkel – infinitamente meno forte da quanto immaginato dopo le presidenziali francesi e prima delle politiche tedesche del 2017 – potrebbe rinsaldarsi proprio nella sua crescente fragilità. Né si può escludere che il cantiere di una “coalizione anti-sovranista in Europa” possa attentamente valutare anche il ruolo di Draghi: come presidente Bce fino al novembre 2019, come possibile Premier italiano, come possibile direttore generale del Fmi in un’ipotesi di swap con Lagarde. Nel frattempo, la nomina di Enria “non-italiano in quota Draghi” potrebbe mettere in discussione la permanenza di un “italiano in quota Governo italiano” nel comitato esecutivo della stessa Bce. Sarebbe la prima volta nell’età dell’euro (prima di Draghi dell’esecutivo hanno fatto parte Tommaso Padoa-Schioppa e Lorenzo Bini-Smaghi). Non sarebbe sorprendente in un’eurozona dove tutti e 19 i governatori hanno formalmente diritto alla rotazione (solo Italia, Francia e Germania hanno finora avuto seggio fisso). Ma non sarebbe sorprendente, nei fatti, in un’Europa in cui l’Italia è diventata grande accusata in quanto “euroantagonista” (vedi le controversie attorno al neo-ministro degli Affari europei, Paolo Savona).
È possibile che sul seggio “italiano” di Draghi nel sancta sanctorum Bce, subentri un tecnocrate designato dal Governo Di Maio-Salvini? Merkel e Macron, presumibilmente, gradirebbero poco: soprattutto dopo la prevedibile crescita della forze sovraniste nel prossimo euro-parlamento. Neppure Draghi ne sarebbe entusiasta. E probabilmente nemmeno l’italiano che lo ascolta di più in questi mesi a Roma: il presidente della Repubblica Sergio Mattarella.