Sotto il cielo di Bologna, dove tante storie s’intrecciano e il vociare della giovinezza lascia ancora spazio alle parole ferme della vecchiaia, si racconta il dramma di Bruno Grandi, 58 anni, disoccupato da diverso tempo e da mesi costretto ad assistere la madre Elvira, anziana e inferma. Grandi, da quel che si riferisce oggi col senno di poi, non ha nessuno attorno: nessun amico, nessun parente. È convinto di dover pensare lui alla madre e quella nuova situazione di cura, come tutti i momenti della vita frutto di atti di eroismo, si trasforma ben presto in una condanna.
Quella solitudine diventa lo spazio dove Grandi, oltre a sua madre, incontra ciò che più teme: se stesso. I mesi che passano s’apparecchiano così ad essere spartito di una melodia dapprima soffusa e poi sempre più imponente: Grandi comincia a guardarsi, a rivedere gli errori e i desideri interrotti di una vita che aveva promesso tanto e dato poco, la misura delle stanze di casa si mostra cartina e mappa della propria anima.
S’inerpica allora in cuore un malcelato senso di frustrazione, di delusione intima per ciò che non è stato e che poteva forse essere. E la madre, da oggetto di attenzione, si tramuta improvvisamente in monumento di un’esistenza avida e ingorda, che Grandi sente sempre di più come stretta, ingiusta. Ogni lamento materno, ogni rimbrotto, ogni dolore, si fa così eco d’una pretesa antica, d’un conto aperto, movente di una rabbia pronta a esplodere. Mamma assume le sembianze d’una bestia: è lei il problema, lei l’ostacolo, lei l’ipostasi di un fallimento che va eliminato, rimosso, e che invece non accenna a mollare la presa da una coscienza che vorrebbe solo pace.
La morte per Elvira arriva d’improvviso in un raptus del figlio, convinto di seppellire con lei quella parte di sé che si ergeva a giudice impietoso delle attese della giovinezza.
È qui che si chiude la storia. Dopo qualche istante, infatti, la porta di casa si apre, entrano i soccorsi, arrivano i carabinieri. L’uomo prende coscienza d’esser assassino e si fa strada un’ombra d’orrore sul suo volto. Finalmente parla, sente che può farlo. Con i carabinieri si tiene una confessione che ha qualcosa d’antico e di religioso. Le cose ricominciano ad assumere la loro forza, il loro colore. Grandi si rende conto del farmaco che sono gli altri, di quanto pesa la solitudine. Eppure niente ormai può cancellare la mostruosità commessa, il gesto titanico e nichilista con il quale Grandi ha ucciso sé.
Come si sta il giorno dopo che ci si è tolti la vita? Come si sta il giorno dopo della propria morte? Non è necessario spirare per saperlo: ci sono gesti che possono uccidere, atti che spalancano un abisso dove domina il nulla. Soltanto la verità rimane lì, nuda e ferma. A ricordarci che la prigione più grande è quella dove ci tiene segregati la nostra mente. E che solo il calore d’un volto, ormai neanche più atteso ma sempre urgente, può distruggerla e ridonarci il dolce sentiero — tremendo e vero — della realtà, delle cose in tutta la loro autenticità.
Perché viene un momento nella vita in cui non ci si basta più, un momento in cui ogni eroismo non è altro che grido disperato al Cielo e ai fratelli, un istante in cui occorre arrendersi e semplicemente riconoscere che perfino la solitudine che sentivamo era una nostra fantasia. L’ennesimo capriccio di una mente che ci vuole mostri talmente ha paura di non essere amata, un capriccio che un guizzo di Grazia e di libertà avrebbero potuto arrestare e vincere. Adesso ciò che rimane sono solo macerie d’umanità, carcasse dolorose d’un reato che nessun condono può superare. Profezia d’un vecchio male che cerca ancora nel mondo un inizio di perdono.