Sta facendo discutere la battuta del ministro Salvini sull’abolizione del valore legale dei titoli di studio. “L’abolizione del valore legale del titolo di studio è una questione da affrontare” ha detto il leader della Lega alla scuola di formazione politica del Carroccio). Evidentemente, a favore delle certificazioni, come per le lingue.
E’ un tema che, di tanto in tanto, viene riproposto. Soprattutto quando escono i dati dei troppi 100 e lode alla maturità in alcune regioni che registrano, invece, basse valutazioni alle prove Invalsi ed Ocse-Pisa, oppure quando si rivendica l’importanza dei test d’ingresso all’università, quasi a dire che non ci si può fidare delle valutazioni della scuola, o sulla base dei dati di AlmaDiploma e AlmaLaurea.
Ricordo solo, en passant, la consultazione nel lontano 2012 del ministro Profumo (governo Monti), col 73% favorevole, nel mondo della scuola, al mantenimento del valore legale.
Ma sono cinquant’anni che se ne parla. Almeno da quando Luigi Einaudi contestò duramente l’artificiosa parificazione tra riconoscimento di un titolo di studio da parte dello Stato e il valore “reale” che solo il vissuto socio-economico può qualificare e riconoscere.
Tutti sappiamo, ad esempio, che non è lo stesso conseguire una medesima laurea in una università rispetto a un’altra, mentre i concorsi pubblici guardano solo il voto formale, cioè considerano solo il “pezzo di carta”. Quel pezzo di carta che oggi, nei fatti, nel mondo del lavoro è considerato un dato da tenere in conto, ma non determinante ai fini della assunzione.
Cosa succederebbe se le scuole si trovassero senza il valore legale? I docenti ed i presidi sarebbero costretti alle proprie responsabilità, per cui tutti richiederebbero, giocoforza — e finalmente — un sistema di valutazione, di sistema ed individuale.
Le stesse università, come detto, sempre meno credono ai voti dati dalla scuola, con i test di ingresso, test che vanno di continuo migliorati, ma che sono oggi considerati imprescindibili.
Anche il ministro Profumo sembrava sulla strada, anni fa, per questa scelta, ma poi dovette fare marcia indietro.
I critici dell’abolizione affermano che rinunciare al valore legale significa rinunciare ad ogni forma di accreditamento. Non è così. Perché non è vero che abolendo il valore legale chi ha una laurea in filosofia il giorno dopo può improvvisarsi dentista.
Se è vero, dunque, che nella realtà le lauree, conseguite in università diverse, non si equivalgono, resta il passo ulteriore da compiere: rendere centrale la scelta degli studenti anche dell’università che darà loro il diploma di laurea. Cosa oggi possibile solo in astratto: se gli studenti sono indotti dallo Stato a pensare che le lauree sono identiche a Trento, a Milano, a Roma, a Catanzaro, tanto per dire, non hanno nessun incentivo a scegliere quella università che ha una migliore reputazione, che prepara meglio, che dà le migliori garanzie di inserimento nel mondo del lavoro.
Questo vale per le università, ma vale anche per le scuole superiori. Senza cioè una comparazione non sui titoli formali, ma sull’effettiva preparazione, diventa una pia illusione credere che basti un pezzo di carta per garantirsi un futuro. Oggi il mondo del lavoro non accetta più questa illusione, a parte lo Stato per i propri concorsi pubblici.
Perché non prevedere per gli studenti borse di studio, condizionate al reddito, per consentire la scelta della migliore università?
Noi, dunque, dobbiamo ricreare le condizioni perché siano gli studenti a poter decidere, e non lo Stato al loro posto. In linea generale, questo significa che la fonte del diritto va ricondotta alla persona, non allo Stato. Con queste borse di studio, tutti, anzitutto i meno abbienti, potrebbero avere pari opportunità. Nella situazione attuale invece i meno abbienti sono penalizzati, costretti a scegliere università qualsiasi, mentre i più abbienti continueranno a scegliere le migliori università.
Abolendo il valore legale si cancella una sorta di circolo perverso: da un lato lo Stato crede di imporre una uguaglianza che però risulta solo formale, dall’altro gli studenti e le famiglie credono davvero, soprattutto i meno abbienti, che esista una uguaglianza di fatto, cosa non vera, tra scuole e tra università. Mentre l’abolizione stimola le scuole e le università a mettersi alla prova, per migliorare il servizio agli studenti. Così le scuole e le università migliori potranno essere al servizio di tutti. Senza paraventi.
I titoli di studio, dunque, non hanno nella realtà lo stesso valore, indipendentemente da dove sono stati conseguiti. Una verità che va letta non in negativo, ma in positivo, perché riconosce la libertà-responsabilità cuore pulsante del nostro vivere sociale. Il “metodo della libertà” come centro di una matura democrazia. Non però una libertà ridotta a “far west” in questo caso formativo, perché lo Stato dovrebbe essere chiamato comunque a stabilire, secondo indicazioni e profili generali e con un adeguato sistema di valutazione, la certificazione dei livelli essenziali, secondo standard minimi.
Stabiliti questi, le scuole e le università, nella loro autonomia, diventerebbero diventare reale “servizio pubblico”. Non quindi uno Stato gestore, ma uno Stato garante del “servizio pubblico”. E sarebbero gli utenti a sancire la bontà effettiva di questo servizio, oltre al sistema di valutazione interno.
Oggi invece i margini di autonomia delle scuole e delle università sono pochi. Segno di uno Stato che pensa negativo, che non si fida né dei docenti né degli studenti e delle famiglie. “Non pensare, è lo Stato che pensa per te”, sembra essere la filosofia pubblica di fondo. Che va scardinata quanto prima.