Mario Draghi è tornato in campo; ancora lui, sempre lui. No, non intendiamo una candidatura politica per il prossimo futuro. Può darsi che ciò avvenga, ma il Presidente della Bce scade nell’ottobre del prossino anno e con l’aria che tira forse le elezioni ci saranno molto prima. Per il momento Draghi opera solo all’interno del suo mandato e da qui propone all’Italia una sorta di via d’uscita dal vicolo cieco in cui si è messo il Governo giallo-verde. In sostanza, suggerisce questo scambio: voi riducete il debito e io vedo che cosa posso fare, cioè come prolungare ben oltre la prossima estate una politica monetaria espansiva.
È l’opposto dello scambio sul quale ha scommesso finora Paolo Savona: cioè Draghi ci dà una mano e noi conteniamo il debito. Il ministro degli Affari europei, però, finora ha sbagliato i suoi calcoli e le sue previsioni non solo sulle mosse della Commissione, ma sugli equilibri interni alla Unione. Non c’è nessun Paese disposto a chiudere un occhio, quelli sui quali il Governo italiano aveva sperato sono i più inflessibili (si pensi all’Austria), in fondo la tanto detestata Francia è l’unica che, ancora una volta, potrebbe offrire una sponda; anche se Emmanuel Macron è nei pasticci e adesso deve persino fronteggiare una rivolta contro i limiti ai motori diesel (la cosiddetta protesta dei gilet gialli). La debolezza della Commissione in via di scioglimento e le divisioni tra i singoli paesi giocano contro il Governo giallo-verde, non a favore.
Draghi non parla di allungare il Quantitative easing, difficile per ragioni tecniche e politiche. Ormai il portafoglio della Bce è gonfio, scarseggiano persino i titoli da comprare, soprattutto quelli a più alto rating, e rischiano di saltare i complessi equilibri, visto che l’acquisto è proporzionale alla quota di ciascun Paese. Mentre cresce il malumore di chi pensa che il Qe sia un paravento per sostenere l’Italia. Tuttavia, se la Bce decide di non alzare i tassi di interesse visto che l’inflazione in media è ancora fiacca (attorno all’1%) e la congiuntura peggiora in paesi come la Germania, il debito italiano diventa più sostenibile e si liberano risorse per sostenere la domanda interna, sempre che si aggiusti la politica di bilancio. I margini per un compromesso esistono.
Il ministro Tria parla di “fattori rilevanti” che giustificano la deviazione rispetto al sentiero tracciato dall’Ue e dal precedente Governo. E cerca di convincere la Commissione. Difficile che convinca austriaci o olandesi (quanto ai tedeschi lasciano parlare i più stretti alleati). Tria ha però le sue buone ragioni, la principale è proprio il rallentamento della congiuntura. È vero che ciò rende ancor meno realistica una previsione di crescita dell’1,5%, ma è altrettanto vero che proprio adesso non si può seguire una politica fiscale restrittiva.
Il pomo della discordia, al di là delle apparenze, non è il deficit al 2,4% per il 2019, bensì il disavanzo strutturale (cioè al netto delle una tantum e delle spese anti-crisi). E qui l’argomento di Tria viene meno. Il precedente Governo aveva programmato un deficit strutturale dello 0,4% del Pil l’anno prossimo e un piccolo attivo nel 2020. L’andamento tendenziale, cioè al netto della manovra, prevede un -0,4% nel 2019 e un -0,1% l’anno successivo. Il Documento di economia e finanza invece scrive un -1,7% fisso fino al 2021 compreso. Ciò vuol dire che il Governo rifiuta di raggiungere il “sostanziale pareggio del bilancio”.
C’è un altro elemento che indebolisce la posizione italiana. Si potrebbe considerare il 2,4% un’impennata momentanea se a determinare il disavanzo fossero da una parte gli investimenti pubblici, dall’altra gli ammortizzatori per contrastare la congiuntura o persino un taglio alle imposte sul lavoro per recuperare competitività, come sta facendo la Francia. Invece gli investimenti sono 3,5 miliardi su una spesa di 24 miliardi, la pressione fiscale che quest’anno è del 41,8% salirà di due decimi di punto e il grosso del disavanzo servirà per il reddito di cittadinanza e le pensioni a quota 100, il cui impatto sulla domanda interna per consumi (cioè anti-congiunturale) è modesto.
Ma il vero vulnus politico resta il rifiuto di pareggiare il bilancio pubblico, nonostante quel che è stato scritto anche nella Costituzione. Si potrebbe naturalmente tornare indietro e cambiare di nuovo l’articolo 81, ma ci vuole tempo e un voto del Parlamento con maggioranza assoluta. Invece il Governo ha deciso di andare per le spicce non rispettando la norma almeno per i prossimi tre anni. A questo punto, non sono più Juncker, Moscovici o Draghi a scendere in campo, ma Sergio Mattarella.
Il presidente della Repubblica ha fatto filtrare che la sua firma alla manovra non è affatto scontata. Vedremo se sarà così, ma è bastato per allargare i contrasti tra falchi e colombe. È una divergenza trasversale, anche se le colombe sono di più nella Lega (si pensi a Giancarlo Giorgetti) e cominciano i ripensamenti anche tra chi sosteneva lo scontro aperto con l’Ue. In un Governo bicefalo, dove il vero potere sta nelle mani dei due vice, tutto dipende da Salvini e Di Maio. Se il capo della Lega riuscirà a frenare i suoi eroici furori (ha dato qualche segnale apprezzando Draghi) e se Di Maio si farà guidare dal buon senso, non da Beppe Grillo, allora Tria potrà metter mano alle carte e correggere il percorso del disavanzo in modo da garantire il futuro pareggio del bilancio e una riduzione del debito, aderendo così all’invito di Draghi. La Bce metterà a punto la sua strategia il 13 dicembre, però segnali concreti debbono arrivare prima. Non c’è molto tempo, ma si può sempre sperare.