A giudicare dagli avvenimenti recenti, Ezra Pound sembra andare di moda: l’intervento di Claudio Magris sul Corriere della Sera, lo spettacolo teatrale di Leonardo Petrillo e con Mariano Rigillo a Venezia, il libro-intervista alla figlia Mary de Rachewiltz di Alessandro Rivali; e il seminario internazionale all’Accademia di studi italo-tedeschi di Merano, sabato scorso, su “Ezra Pound: un intellettuale tra intellettuali”, dal quale prendono spunto queste riflessioni. Con una domanda, anzitutto, che sorge spontanea: di quale Pound si sta parlando, o meglio, quale aspetto della poliedrica figura dell’autore americano è fatta oggetto di questo piuttosto nuovo interesse dei media?
A quanto pare di cogliere, l’attualità di Pound è legata alle sue fallimentari idee politiche e alle sue colpe antipatriottiche, che lo tennero rinchiuso per dodici anni nel manicomio criminale di Washington DC: fascista, antisemita, traditore, economista visionario, pazzo complottista… un riferimento a qualcuno di questi lati oscuri della sua biografia vulgata sembra imprescindibile ogni volta che si parli di lui e della sua opera. E se ne tratti pure, sia chiaro, cercando però di farlo senza instaurare paralleli anacronistici tra il contesto storico, politico, culturale di allora e quello di oggi; senza cadere in un facile saintbeuvismo di ritorno per trovare a tutti i costi un nesso tra l’homme e l’œuvre; senza voler fare dei Cantos un collettore di oscuri messaggi profetici anziché un diario di viaggio, frammentario, contraddittorio, incompiuto, della difficile esperienza umana e artistica di un intellettuale engagé.
Intellettuale, Pound, lo fu senza dubbio, perché, per parafrasare una definizione da vocabolario, era “colto (un lettore onnivoro: del passato più e meno antico, e del contemporaneo più presente), amante degli studi (da quelli di filologia romanza all’università a quelli sinologici da autodidatta), dotato del gusto del bello e dell’arte (beauty is difficult è uno dei suoi motti più celebri, sintesi della sua ricerca di armonia tra perfezione tecnica e coerenza di contenuti), attivo nella produzione letteraria e artistica (promotore culturale dalle pagine di giornali e riviste, scopritore e divulgatore del genio altrui, a cominciare da quello di T.S. Eliot)”.
Insieme e intorno a lui ci sono tante persone intellettualmente dinamiche, che non sono gli intellettuali delle élites depositarie di valori e saperi universali, ma la fittissima e variegata rete di contatti personali e professionali che Pound ha cercato o accolto.
Una giornata di studi non può avere alcuna pretesa di esaustività, ma vorrei ritenere almeno un paio di spunti di metodo e di approfondimento, saccheggiando dichiaratamente gli interventi di Massimo Bacigalupo, Manlio Della Marca, Sean Mark, Maurizio Pasquero, Carlo Pulsoni. Punto primo: sulla concretezza. Pound ha sempre sostenuto l’esattezza della parola, più efficace a rendere senza ridondanze descrittive l’immagine portatrice di senso, un “dettaglio luminoso”, per citarlo, nel quale si comprimono e si fondono per analogia più piani temporali e più sistemi segnici, espressione certo delle più elevate possibilità simboliche del linguaggio (verbale, percettivo sensoriale, eccetera), radicate però in un dato di partenza concreto, documentabile. Il luogo del reale per eccellenza è, per giocare con le sue iniziali onomastiche, l’EPistolario poundiano, molto ricco e largamente inedito (lo è, ad esempio, il carteggio con la traduttrice tedesca d’elezione Eva Hesse, o quello con il teorico dei media Marshall McLuhan).
Contro l’arbitrarietà della congettura esegetica, di fronte all’opera poundiana, costruita come un mosaico di citazioni e auctoritates, la corrispondenza aiuta a chiarire la glossa di nomi, posti, avvenimenti. Contro la smaterializzazione dei giudizi critici idealizzanti o ideologizzanti, la corrispondenza umanizza pregi e difetti, abbozza ritratti e caricature tridimensionali (quella, per dire, di un pittoresco “novello Byron” nell’AngloLiguria degli anni Venti e Trenta), abbonda di quel sense of humour ora graffiante, ora felpato, mal compreso in tanta produzione poundiana, così come il suo “incompressibile” (da una lettera a Hemingway), cioè massimamente denso e potente sperimentalismo ed espressionismo linguistico. Le lettere non sono solo quelle da e a Pound, ma anche quelle per Pound e su Pound: quelle, ad esempio, che si scambiano l’editore Vanni Scheiwiller e Giuseppe Ungaretti nel 1956, “dietro le quinte” di una petizione tutta italiana (e ad oggi dispersa) per la liberazione di Pound, che segnò una profonda spaccatura culturale tra i nostrani sostenitori e avversatori della causa.
Punto secondo: sull’impegno. Pier Paolo Pasolini fu tra coloro che non firmarono la petizione. Eppure, dieci anni dopo, la famosa intervista televisiva del 1967 girata nella casa veneziana del poeta appare come una sorta di vero e proprio omaggio di Pasolini ad un maestro del Novecento, con il quale sente di spartire ormai la condizione declinante di marginalità espatriata, conseguenza di una autorialità scandalosa e perseguitata per il suo coinvolgimento totale e il suo impegno politico. La rabbia (titolo del film pasoliniano del 1963) antiborghese e anticapitalista che aveva gettato entrambi nella mischia, si è trasformata in amarezza dai toni confessionali o in silenzio.
Molti hanno accusato e accusano la fotografa genovese Lisetta Carmi di aver “teso una trappola” a Pound quando, nel 1966, ne rubò quei dodici scatti sulla soglia dell’abitazione a Sant’Ambrogio degli Zoagli (esposti all’Accademia di Merano), giudicati impietosi, indiscreti e insensibili al decadimento fisico e mentale di un vecchio dall’aria arruffata e dallo sguardo perso nell’abisso oltre la siepe. E tuttavia, questa per altri versi criticabile invasione dell’intimità, presenta un Pound diverso dal tanto vulcanico quanto polemico animatore delle avanguardie moderniste, o dall’orgoglioso prigioniero di guerra con la foto segnaletica al collo. È un altro Pound, non voglio dire né l’unico, né il più vero, ma a mio avviso quello che meglio ci invita a non distogliere lo sguardo da ciò che disturba, a non censurare la bruttezza, a guardare anche il “nemico” con onestà intellettuale.