“Ha ragione chi pensa, dice o scrive che la giovane cooperante milanese rapita in Kenya da una banda di somali avrebbe potuto soddisfare le sue smanie d’ altruismo in qualche mensa nostrana della Caritas, invece di andare a rischiare la pelle in un villaggio sperduto nel cuore della foresta. Ed è vero che la sua scelta avventata rischia di costare ai contribuenti italiani un corposo riscatto” scrive Massimo Gramellini, opinion maker del Corriere della Sera. Se a queste parole di un cinismo assoluto aggiungiamo la marea di insulti che Silvia Romano sta ricevendo sui social (“frustrata”, “oca giuliva”, “disturbata mentale”), il quadro che si delinea della concezione di volontariato (non diremo missione perché se no si aggiungeranno gli insulti a preti e suore che “stuprano” mentalmente gli africani imponendo la loro religione) è demoralizzante. In sostanza intellettuali e popolino assumono in pieno “il prima gli italiani” e chissenefrega del terzo mondo e bollano — ancora Gramellini — queste ragazze come “giovani sognatrici un po’ folli illuse di potere cambiare il mondo”. Ne abbiamo parlato con Cristina Picariello, 25 anni, brianzola, che ha passato dieci mesi in Uganda ed è pronta, dice, a tornarci subito: “Non vai in Africa con l’idea dell’avventura o di farti bella davanti ad amici e parenti, altrimenti resisti un mese, tanto è duro, difficile, pericoloso. Se ci vai è perché desideri imparare qualcosa che qui non trovi”.
Come hai deciso di andare in Uganda? Perché una ragazza giovane con tante prospettive fa una scelta come questa?
Si è trattata di una occasione, inizialmente. Avevo insegnato per un anno in una scuola e quando ero all’università avevo fatto due anni di tirocinio nelle scuole ospedale.
Che sarebbero? Perché molti non lo sanno.
C’è un programma statale che permette il tirocinio andando a insegnare ai bambini ricoverati in ospedale che non possono uscire. Fu una esperienza che mi piacque molto.
Ti era rimasto dentro qualcosa di quella esperienza? Potevi cercare lavoro in un’altra scuola, no?
Sì, mi era piaciuto molto, e volevo approfondire quell’esperienza, imparare a guardare l’altro per come è e non per come ce lo abbiamo in mente noi. Un conto è avere due ore a disposizione per insegnare chi era Carlo Magno, un conto venti minuti perché il bambino per le cure che fa non riesce ad avere una soglia di attenzione più alta.
A questo punto cosa hai fatto?
Ho contattato Avsi (Associazione volontari servizio internazionale, che segue progetti di sviluppo e iniziative educative, sanitarie, lavorative in molti paesi poveri) perché volevo continuare questa metodologia di insegnamento. Mi hanno proposto l’Uganda perché vi esiste una attività educativa molto strutturata. L’idea era: guardare l’altro come persona, non come il mio modello di studente che avevo in mente.
E cosa è successo?
Pensavo, grazie ai miei studi, alla provenienza da un paese ricco e sviluppato, di insegnare loro un metodo, invece sono stati loro a insegnare a me, dai bambini alle loro famiglie. Si tratta di donne single, molte malate di Hiv, bambini che non hanno quasi niente ma che tra loro condividono tutto, ti accolgono e tra insegnanti vige la massima collaborazione. Tu credi di avere la tua idea di realtà, invece la realtà è quella, o la segui o ti perdi.
In sostanza voi andate in Africa convinti di portare qualcosa, invece…
Uno non va in Africa per avventura o per farsi bello, altrimenti ci resisti un mese tanto è difficile e diverso. Il punto è che vai ad imparare.
Hai mai vissuto dei momenti di paura, ci sono stati episodi pericolosi in cui ti sei imbattuta?
L’Uganda non è come il Kenya, in Uganda i bianchi sono accolti con fiducia e rispetto. In Kenya invece per via della loro storia c’è molta diffidenza. In ogni caso in quanto ragazza bianca alla sera non sono mai potuta uscire da sola, dovevo stare in casa. E anche di giorno non ero tranquilla, mi sentivo osservata. Per loro un bianco significa soldi, e ne hanno disperato bisogno, una volta hanno tentato di scipparmi. Evitavo anche di giorno di andare troppo in giro. Non ho mai potuto mettere piede da sola nella baraccopoli dove vivono le mamme dei miei alunni, solo accompagnata.
In conclusione: se ci fosse l’occasione ci torneresti?
Assolutamente sì, sono felice di esserci stata.
(Paolo Vites)