Il cammino sarà ancora lungo, ma le prime avvisaglie non promettono niente di buono. Parliamo del rinnovo contrattuale dei docenti per il triennio 2019-2021: per il quale – stando alle informazioni ad oggi disponibili – sarebbero in vista importi molto modesti, di pochi euro. Eppure, appena pochi mesi fa, esponenti dell’attuale maggioranza avevano speso la rituale promessa di “stipendi europei”.
E’ realistico attendere in tempi ragionevoli un aumento sostanziale nelle retribuzioni per il personale della scuola? E che cosa significa esattamente “stipendi europei”? Perché dell’Europa fanno parte il Lussemburgo o la Germania, dove le retribuzioni sono effettivamente molto più alte; ma anche la Francia, dove la differenza non è poi enorme, per non parlare della Lituania o della Slovacchia o della Romania.
Ci sono buoni motivi per dubitare che un aumento importante sia possibile: e non solo perché le priorità dell’agenda politica sembrano al momento altre. Ci sono cause strutturali, che non sono di oggi, e che rendono improbabile, ancora per molto tempo, un miglioramento significativo.
Cominciamo dai numeri: stando ad una recente elaborazione su dati Miur, i docenti di ruolo sono circa 730mila, cui vanno aggiunti circa 30mila insegnanti di religione e circa 90mila insegnanti di sostegno. Non basta; ci sono poi i supplenti annuali (quelli che insegnano di fatto tutto l’anno): almeno altri 50mila di sostegno “in deroga” e almeno altri 50mila per coprire posti di fatto vacanti. Siamo vicini al milione.
In Paesi come la Francia o la Spagna, con una popolazione simile alla nostra, i docenti sono circa 700mila. In Germania sono quasi un milione, come da noi, ma rispetto a una popolazione di oltre 80 milioni di abitanti. Questo elemento, da solo, basterebbe a spiegare come sia molto più costoso pagare “bene” gli insegnanti in Italia che altrove.
Ci sono altri dati, più o meno correlati al dato base, che portano alla stessa conclusione: per esempio, il numero di alunni per docente, che da noi è ancora inferiore a 10, mentre nel resto d’Europa oscilla fra 13 e 15; oppure il tempo di lavoro contrattuale per anno, che da noi è vicino a 600 ore di insegnamento + 80 di riunioni collegiali, mentre altrove si colloca sopra le 700 ore e anche di più.
Ancora: ogni volta che un governo decide di investire nella scuola, la prima cosa cui pensa è l’assunzione di un numero più o meno grande di precari, con il risultato di appesantire ulteriormente i costi e di prosciugare le risorse disponibili. L’ultima operazione di questo tipo, in ordine di tempo (2015), è stata quella del governo Renzi, quella che voleva prosciugare le graduatorie ad esaurimento e che ha comunque portato ad assumere oltre 70mila docenti “di potenziamento”, cioè in soprannumero. Con gli stipendi attuali, pari come base a circa 35mila euro annui (compresi gli oneri riflessi), questa operazione è costata almeno due miliardi e mezzo di euro. Quella somma, ripartita su 850mila insegnanti e su tredici mensilità, avrebbe da sola portato a un incremento di circa 160-200 euro mensili netti.
Naturalmente, a questi dati bisogna aggiungerne almeno un altro: e cioè che la percentuale del Pil che viene spesa in istruzione è da noi un po’ più bassa che nella maggior parte degli altri Paesi europei. Ma va aggiunto che quasi tutto quel che viene speso va in stipendi, il che in parte bilancia il dato.
Al netto di molte altre considerazioni che si potrebbero fare e che attengono più alla sociologia che alla finanza pubblica, la realtà è che in Italia pagare bene gli insegnanti costerebbe molto più che altrove, perché si è preferito investire sul loro numero piuttosto che sulla loro qualità. Il che significa che si è scelto, più o meno consapevolmente, di scoraggiare – e quindi di allontanare – i potenziali candidati più qualificati, quelli che possono ragionevolmente sperare in condizioni migliori, e di imbarcare molti altri, non necessariamente quelli di cui il nostro disastrato sistema avrebbe invece bisogno.
Se si guarda alla situazione generale, si vedrà che i Paesi dove gli stipendi degli insegnanti sono più alti, sono in genere anche quelli in cui essi non sono dipendenti pubblici, ma reclutati direttamente dalle scuole o dalle municipalità: Regno Unito, Olanda, Danimarca e Paesi scandinavi in genere. Sono realtà in cui gli aspiranti all’insegnamento – una volta conseguita l’abilitazione professionale – si “mettono sul mercato”, e cioè cercano, in base ai propri titoli, una sistemazione corrispondente ai loro interessi. Si comportano, in sostanza, come liberi professionisti, che, in cambio di minori tutele (prime fra tutte, il posto fisso e il diritto alla mobilità), ottengono condizioni di lavoro nettamente migliori. Da noi mancano le condizioni di sistema perché questo avvenga: ma, se fosse possibile scegliere, quanti dei nostri insegnanti opterebbero per una soluzione del genere? Eppure, anche l’insieme delle garanzie sociali ha un costo per le casse statali e si può considerare come una forma di salario immateriale per chi ne beneficia.
Un ultimo raffronto, anche questo eloquente, se pure su un piano diverso. La tanto celebrata Finlandia non paga i suoi insegnanti molto meglio di noi: circa il 10% in più. Ma in Finlandia il loro prestigio sociale è altissimo, come conseguenza di una selezione estremamente esigente, che recluta i futuri docenti nel 10% dei migliori diplomati secondari. Il che non vuol dire che tutto quel 10% vada a insegnare, ma che tutti quelli che vanno a insegnare provengono da quel 10%. Un’aristocrazia intellettuale rispettata non per quel che guadagna, ma per quel che fa e per come lo fa.
Non è a colpi di sanatorie, di ope legis e di ricorsi al Tar che ci avvicineremo a quegli standard.