Riforma pensioni? “Que reste-t-il de nos amour” intonerebbero – se conoscessero il francese – i fratelli De Rege dopo la missione di Conte e Tria a Bruxelles (è la prima volta che a due “prigionieri politici”, privi di ogni credenziale affidabile, viene affidato un delicato confronto molto importante per un Paese dove sono soltanto dei prestanome). Qualunque cosa sia accaduta a cena sabato scorso, il Minculpop ha diramato una velina a cui si sono attenuti tutti i media: “Con l’Europa si tratta”. Matteo Salvini, lo stesso che diceva di volersi nutrire di pane e spread, ha scoperto una versione moderna dell’antico adagio italiota “O Franza o Spagna purché se magna” e si è lanciato in un altro “me ne frego” destinato stavolta ai decimali del deficit. È diventato allora politicamente corretto trasferire agli investimenti un po’ di risorse raccattate dagli stanziamenti assegnati ai due fondi di cui all’articolo 21 del disegno di legge di bilancio (pensioni e reddito di cittadinanza).
E tutti sono alla ricerca di quelle che potrebbero essere le soluzioni di ripiego in tema di riforma pensioni: attribuire a quota 100 non solo il limite anagrafico di 62 anni, ma anche quello contributivo di 38 anni, per cui il 62enne che non ha maturato ancora il requisito di anzianità andrebbe in pensione più tardi come colui che, pur potendo vantare 38 anni di versamenti prima dei 62 anni, dovrebbe raggiungere quell’età. Così quota 100 potrebbe lievitare a 101 e oltre.
Spalmare la possibilità di pensionamento con la tecnica lungamente sperimentata delle “finestre”: una misura questa che è certamente inevitabile nel pubblico impiego – pena la messa in difficoltà di importanti servizi – in considerazione dei tempi lunghi che occorrono per fare nuove assunzioni mediante i concorsi. Rendere la possibilità di pensionamento anticipato con quota 100 come una sorta di Opzione donna che implichi il ricalcolo contributivo anche per i periodi maturati in regime retributivo. Stabilire un arco temporale di alcuni anni in cui sia in vigore il divieto di cumulo tra pensione anticipata e reddito da lavoro. Considerare solo un numero limitato di anni in regime di contribuzione figurativa ai fini dell’anzianità di servizio.
Come queste misure potrebbero essere accettate dall’elettorato giallo-verde non è un problema che interessa a chi scrive. Vi sarebbe, invece, un altro aspetto meritevole di approfondimento. Se il Governo si presentasse a Bruxelles con queste proposte gli chiederebbero se ha intenzione di vendere loro la Fontana di Trevi. Perché questi “accorgimenti” non ridurrebbero la spesa per un motivo molto semplice: sarebbero comunque necessari per rendere compatibile la “controriforma” con lo stanziamento (6,7 miliardi nel 2019 e 7 miliardi dal 2020) previsto nella Legge di bilancio.
Tutti gli osservatori sono concordi con tale valutazione. Lo stesso Alberto Brambilla lo ha ammesso – con la consueta onestà intellettuale – in una recente intervista di cui riporto i passaggi-chiave. «È chiaro che se diciamo “tutti a casa”, cioè tutti quelli che hanno almeno 62 anni d’ età e 38 di contributi possono andare via senza perdere nulla, arriviamo a un costo tra i 13 e i 15 miliardi di euro. Ma ci sono diversi paletti per limitare la spesa». «Quali», gli chiedono? «Premesso che quota 100 è un’opzione volontaria si potrebbe pensare, e c’è nel programma, che tutti quelli che sceglieranno questa strada avranno il ricalcolo contributivo della pensione maturata dopo l’entrata in vigore della riforma Dini, cioè dopo il primo gennaio del 1996. È anche una questione di equità perché quelli che matureranno i requisiti dal 2023 avranno già il calcolo contributivo».
«Si rischia una penalizzazione molto forte?», gli domandano. «Il ricalcolo – prosegue Brambilla – comporterebbe una riduzione media del 10% circa. Ma si prende la pensione per cinque anni in più, e in quei cinque anni non si versano i contributi e non si lavora. Tuttavia è chiaro che a scegliere questa strada sarebbero meno della metà delle persone che hanno i requisiti. Meno di 200 mila su un massimo teorico di 430 mila. Così il costo non supererebbe i 6,7 miliardi. Ma ci potrebbero essere anche altri paletti». Ad esempio? «Un limite di due o tre anni ai contributi figurativi, senza toccare quelli per maternità e servizio militare. E poi quota 100 andrebbe di pari passo con l’attivazione dei fondi di solidarietà e fondi esubero, come accade oggi per banche e assicurazioni, che non costerebbero nulla allo Stato perché sono alimentati dai datori di lavoro. E che utilizzerebbero gli stessi criteri utilizzati oggi per l’Ape social per stabilire l’accesso al beneficio ma con molti vantaggi in più».
Lo ripeto per chi non l’avesse capito o facesse finta di non capirlo. Queste proposte dell’esperto che dicono essere vicino alla Lega (e che sicuramente se ne intende) sarebbero necessarie comunque, anche se non ci fosse da ridurre gli stanziamenti.
Per il reddito di cittadinanza (la pensione di cittadinanza è finora “non pervenuta”), il ricorso a una riduzione delle risorse previste ridurrebbe l’intervento a un’azione poco più che simbolica. Oggi, con i 9 miliardi contenuti nel Fondo, si determinerebbe la seguente situazione. Essendo il parametro per decidere chi avrà diritto a ricevere il reddito di cittadinanza l’Isee, i 9 miliardi di euro dovrebbero essere suddivisi tra i 2,5 milioni di famiglie con Isee inferiore ai 9.360 euro annui (soglia indicata dall’Esecutivo). Ebbene, se così fosse il reddito di cittadinanza si tradurrebbe, in media, nell’erogazione di 293,95 euro mensili per famiglia. Si è detto che riceverà di più chi a oggi ha un reddito più basso e viceversa. Ma, in questo modo, come risulta da uno studio del Sole 24 Ore, in base alle presentazioni dell’Isee effettuate nel 2016, sono 469mila le famiglie con Isee a zero. Pertanto, 4,4 miliardi su 9 andrebbero a finanziare i 780 euro mensili da erogare a questi nuclei che avrebbero diritto (sempre in base alle regole annunciate dal M5s) al contributo pieno.
In pratica un quinto dei potenziali aventi diritto assorbirebbe circa la metà dello stanziamento riservato dalla Legge di Bilancio al reddito di cittadinanza. Per gli altri 2 milioni di nuclei rimarranno 4,6 miliardi di euro: in questo caso l’importo medio mensile scenderebbe per la stragrande maggioranza dei beneficiari a 184,15 euro al mese. Che cosa resterebbe dell’istituto che, secondo Giggino Di Maio, dovrebbe eliminare la povertà assoluta in Italia? Un piccolo mazzo di papaveri.