Monsignor Juan José Aguirre è vescovo di Bangassou (Repubblica Centrafricana) dal 2000, dove vive da 38 anni, come missionario. È un gigante piccolino, con la barba simile a quella del suo fondatore, Daniele Comboni. Ha una voce giovanile e uno spiccato senso dell’umorismo, nonostante la sua salute fragile, con un cuore ferito e con la malaria che non vuole andarsene. Parla uno spagnolo curioso, con un leggero accento francese, nonostante sia nato a Cordoba. Condividere un po’ di tempo con lui, dopo la sua conferenza a Encuentro Madrid, presieduta dal giornalista della Cope, José Luis Restán, e sponsorizzato da “Aiuto alla Chiesa che Soffre”, è davvero un regalo. È un uomo con infinite storie da raccontare, con una saggezza acuita dalle peggiori condizioni immaginabili, con un’affabilità che ti fa sentire abbracciato e amato in ogni momento. Parlando con lui, si comprende facilmente che l’arrivo di immigrati sulle nostre coste è strettamente legato allo sfruttamento sistematico dell’Africa da parte dei Paesi sviluppati, che produce guerra e povertà.
Monsignor Aguirre, le chiedo di aiutarci a capire questa guerra, che da 5 anni dilaga in quello che ormai è il suo Paese, il Centrafrica. Che cosa ha spezzato la convivenza?
Il Centrafrica è un Paese che è grande due volte la superficie dell’Italia, sebbene sia molto meno popolato. Siamo solo 6 milioni di abitanti, in mezzo alla giungla. È un territorio con molte faglie geologiche, per questo si crede che nel sottosuolo ci siano ricchezze geologiche, come gas e petrolio. Questo è ciò che ha fatto sí che le grandi potenze si interessassero al nostro Paese, scatenando una guerra. Siamo un Paese ricco di minerali. È ciò che ha permesso che i nostri progetti di cooperazione, di affetto verso la gente, di ospedali, sale operatorie eccetera, siano stati distrutti. Come sono a rischio le nostre case di cure palliative per i malati di Aids, i nostri orfanotrofi per i bambini i cui genitori sono morti per la malattia, le nostre casette di speranza per gli anziani con demenza senile, per cui sono spesso accusati di stregoneria.
Quali Paesi hanno portato a questa situazione di guerra nella Repubblica Centrafricana?
Tutto questo si è frantumato 5 anni fa, quando abbiamo visto arrivare dal Ciad dei commandos di mercenari, jihadisti inviati dall’Arabia Saudita e dai suoi alleati. Sono venuti a mettere sottosopra la situazione, a farci credere che le ragioni di tutto ciò siano religiose, ma quello che in realtà volevano erano i minerali. Fino ad allora tutte le religioni avevano convissuto bene insieme, ma poi hanno cominciato a uccidere in nome della religione e si sono mangiati la nostra pace e il nostro Paese come una frittata di patate.
Si ripete la storia dei Paesi ricchi che sfruttano quelli poveri, anche se apparentemente ci sarebbero risorse naturali per vivere molto bene.
Sì, l’Arabia Saudita non è l’unico potere che ci sfrutta. Due anni fa anche altri Paesi hanno fiutato le ricchezze che si trovano nel nostro sottosuolo. È arrivato Putin, che ha firmato accordi con i leader del nostro Paese per prendersi i nostri diamanti in cambio di armi e formazione per l’esercito, che da solo, senza aiuti esterni, non era in grado di affrontare i signori della guerra che governano gran parte del nostro territorio. I russi sono arrivati con i loro Antonov. Sono atterrati all’aeroporto dell’ex dittatore, Bokassa, a 60 chilometri dalla capitale, perché i francesi, che tradizionalmente sfruttano il caucciù della regione, non hanno permesso loro di atterrare a Bangui. Sono arrivati con armi, infischiandosene dell’embargo dell’Onu sugli armamenti nel nostro Paese.
E poi?
Sono arrivati anche gli Stati Uniti e Israele, con le loro armi e i loro veicoli. Sono arrivati anche i cinesi, con macchinari pesanti e aerei carichi di persone che noi crediamo siano detenuti a cui si offre una riduzione della pena a patto che accettino di lavorare in Africa. La Cina costruisce strade in cambio del nostro oro. Tutti questi paesi vengono a cercare ricchezze e a soffrire è chi si trova in basso. C’è un proverbio africano che dice: quando due elefanti combattono, chi soffre è l’erba che hanno sotto le loro zampe. E’ ciò che sta accadendo nella Repubblica Centrafricana. Stiamo lavorando con i più poveri, siamo missionari e cerchiamo di dar loro una speranza, ma i Paesi ricchi ci rendono la vita difficile.
Lei prende sul serio l’impegno di prendersi cura di coloro che ne hanno più bisogno, qualunque sia la religione professata. Sappiamo che ha salvato molti musulmani da morte certa nel bel mezzo di una guerra che molti pensano sia dettata da motivi religiosi. Perché lo fa?
Per amore. La nostra vocazione ci è data da Dio e Lui ci dà la grazia, perché abbiamo il coraggio di essere lì e di giocarci la vita. Un anno e mezzo fa bande di non musulmani iniziarono ad attaccare i tre quartieri musulmani. A un certo punto anche i Caschi blu se ne andarono. Nessuno mi ha ancora spiegato perché se ne siano andati. La popolazione musulmana si asserragliò, quindi, nella moschea e 300-400 cecchini cominciarono a sparare indiscriminatamente contro tutti quelli che stavano dentro. Ne uccisero molti.
E come avete risposto?
Quando la notizia arrivò alla nostra cattedrale, io e alcuni preti andammo là, interponendoci sulla linea del fuoco con le nostre tonache bianche. Ci fermammo davanti alla porta della moschea, alzammo le braccia e chiedemmo che non sparassero, perché c’erano molte donne e bambini e la legge sui conflitti bellici non permette di sparare contro di loro. I proiettili ci sfiorarono.
Non eravate spaventati?
Sì, certo. Alcuni dei miei sacerdoti si nascondevano dietro di me e io gli dicevo: “Non ti preoccupare, non hai letto il Salmo 90? Mille cadranno al tuo fianco e diecimila alla tua destra; ma nulla ti potrà colpire. Dio ci ha ispirato. Noi non siamo nulla. Senza di Lui non avremmo potuto stare lì. Siamo rimasti tre giorni. Alla fine sono arrivati i Caschi blu portoghesi. Dopo aver allontanato i cecchini, chiesero ai musulmani dove volessero essere portati. Quella povera gente rispose che volevano andare alla chiesa cattolica. Così mi disse il capo dei Caschi blu. Gli chiesi quanti fossero e mi disse che si trattava di 2mila persone.
Li ha accolti?
Se non li avessi accolti, sarebbero stati tutti massacrati. La parabola del buon samaritano ci dice che dobbiamo prenderci cura di tutti coloro che sono nel bisogno. Così chiesi ai miei sacerdoti se erano d’accordo e loro mi guardavano con occhi spalancati. Quindi decisi di assumermi questa responsabilità. Li portammo in seminario. I seminaristi presero le loro cose e se ne tornarono a casa. E così 2mila persone entrarono in seminario, vivendo all’aperto. Vivono lì da un anno e mezzo e ogni giorno passiamo loro 25mila litri di acqua potabile.
Da allora convivete con loro?
La Chiesa si rivolge sempre ai più vulnerabili, indipendentemente dal fatto che siano o meno musulmani. Ci sono alcuni che non lo capiscono. Ci sono cattolici che mi mettono la mitragliatrice sulla testa e mi dicono che sono un traditore perché diamo loro rifugio. Spero solo che non sparino. Senza la grazia di Dio non siamo nulla. Poco prima di portare tutte le vittime del massacro al seminario ho chiesto ai Caschi blu di darci mezz’ora. Volevo scavare una fossa comune prima del loro arrivo, così da poter seppellire tutti i morti: c’erano musulmani e non musulmani. Li seppellimmo tutti insieme e tra loro non ci fu lotta. Siamo tutti uomini.
Dove erano le Ong quando sono accadute queste cose?
Tutti se ne erano andati via. Quando si corre così tanti pericoli se ne vanno. Come spesso dice l’associazione “Aiuto alla Chiesa che soffre”: la Chiesa è sempre l’ultima, quella che spegne la luce. Quando gli altri se ne vanno, la Chiesa cattolica rimane.
Vivendo tutte queste circostanze, non ha sperimentato l’assurdo, il silenzio di Dio?
Dopo aver seppellito i morti nel massacro della moschea, ho continuato a pensare: “dov’era Dio mentre tutto ciò accadeva?”. Mi succede spesso, ma poi, quando mi affido tranquillo alla preghiera, Dio dice: “Ma figlio, io ero lì, proprio dietro di te, stavo soffrendo e piangendo con te”. Le crudeltà a cui assistiamo sono inimmaginabili. Ho visto sparare ai bambini. Ho protestato e loro mi hanno risposto: “Che differenza fa? Basta puntare più in basso”. La parola chiave per comprendere la sofferenza gratuita in cui molte volte dobbiamo vivere noi è calvario, è il Dio del Calvario, che soffre per risuscitare dopo tre giorni. Monsignor Romero, che è stato appena canonizzato, diceva: “Se mi uccideranno, risusciterò nel popolo di El Salvador”. Questa è la chiave.
Anche se è sopravvissuto a situazioni come quelle che ha raccontato, sono molti quelli che invece sono morti.
La Chiesa è perseguitata in questo momento. Molti stanno diventando martiri. E’ ciò che tocca ad alcuni. Il mio vicario generale ha ricevuto 40 pugnalate. L’ultima pugnalata, alla gola, è arrivata a un solo centimetro dalla carotide. E’ stato salvato per miracolo. Ora è in Francia, e sta guarendo, grazie a Dio. Era il più diplomatico della nostra diocesi, il più tollerante, sapeva mantenere la calma in ogni situazione e cercava il dialogo serenamente con tutti… Dopo questa esperienza, molto probabilmente non sarà più così.
Quante volte le iniziative sviluppate in Centrafrica sono state calpestate?
La grazia di Dio ci dà la forza di ricominciare. Cinque anni fa arrivarono i fondamentalisti e rubarono tutto ciò che era nelle nostre case, incluse le nostre 25 auto. Per nove mesi ci siamo mossi solo a piedi. Portarono via tutto, tranne la fede e la speranza. Tutte le opere furono distrutte.
E non vi è mai capitato di cadere nella disperazione?
L’ho già detto: c’è la grazia. Di fronte a tutto ciò, possiamo solo ricominciare, con speranza. La metà dei miei sacerdoti soffrono stress post-traumatici e sono dovuti rientrare. Anche molte suore hanno dovuto andarsene, perché c’è stata molta violenza. Quando una suora viene minacciata da persone spietate armate di kalashnikov che la obbligano a svestirsi completamente per vedere se ha nascosto del denaro nella sua biancheria intima, ovviamente si sente come un pulcino indifeso e per riprendersi è opportuno mandarla in città, nella capitale. Noi che siamo rimasti lì ci siamo messi a ricostruire tutto. Come dice Papa Francesco: “Che nessuno ci rubi la speranza”. E quando la speranza è finita, sai cosa rimane? Beh, la speranza di riavere speranza.
In questa drammatica situazione cosa resta della pastorale?
La vita missionaria è pastorale. La missione è come una moneta. Da un lato c’è scritto “evangelizzazione”, dall’altro “promozione umana”. E il bordo di metallo è l’amore, l’affetto con cui diamo la vita per i più poveri. Questo si è ridotto, ovviamente. La maggior parte dei cattolici è dovuta fuggire. La guerra si è trasformata in terrore e molti se ne sono andati solo con ciò che avevano addosso.
Sono diventati degli immigrati…
Il Centrafrica ha un milione e 100mila immigrati che sono fuggiti dalle loro case: 650mila si trovano in Sudan, Congo o Camerun e 550mila stanno fuggendo dalle loro case e sono ancora dentro il Paese. Tuttavia, in Africa tante volte gli immigrati e i rifugiati vengono ricevuti senza tanti documenti o burocrazia. Un Paese come l’Uganda ha appena ricevuto un milione e 200mila persone dal Sud Sudan, che sta soffrendo un’orribile guerra civile. Li hanno accolti senza chiedere documenti in regola o senza domandare quale fosse la loro religione. Li hanno ricevuti, perché erano persone umane con la “U” maiuscola. Dio è lì, anche se a volte si nasconde.
(Jorge Martínez Lucena)