Il titolare di un ristorante di Torino caccia sabato sera dal suo locale un gruppo di amici perché quattro di loro sono down. Lo ha denunciato su Facebook una delle due signore presenti, quella a cui il proprietario aveva detto “non sappiamo come gestirli”.
La vicenda dopo qualche ora ha avuto uno sviluppo, per fortuna, positivo. Non solo perché il medesimo gruppo ha trovato rispetto, attenzioni e ascolto presso il ristorante “Le rondini” ma perché il titolare del primo locale ha chiesto scusa al gruppo e li ha invitati a tornare ieri pomeriggio. Giuseppe, questo il nome del signore protagonista del fattaccio, ha ammesso di aver fatto uno scivolone. «Non sono il mostro che dicono, abbiamo anche casi di persone speciali in famiglia, quindi non potrei mai aver rifiutato loro. Semplicemente, ho pronunciato una frase sbagliata che ha creato un malinteso», dice mentre si scusa pubblicamente, sempre su Facebook, e poi di persona con gli interessati. Le scuse sono state accettate e per questo ho preferito evitare di citare il nome del ristorante protagonista in negativo. «Ho sentito Giuseppe per telefono, quindi ho ascoltato anche la sua voce e i suoi toni — spiega la signora che era stata cacciata assieme ai ragazzi —. Per noi e per i nostri ragazzi le scuse sono accettate. Un momento nero può capitare. È capitato a lui ieri. I ragazzi lo hanno capito».
Detto questo, rimane il fatto che quando ci arrabbiamo, diciamo quasi sempre la verità, almeno in parte. È vero che l’ira amplifica i nostri sentimenti, esagera una nota negativa o ingigantisce un difetto, ma dentro quello che diciamo quando parliamo da arrabbiati qualcosa di vero c’è sempre. Magari non l’abbiamo mai detto per non ferire o forse, per rimanere in argomento, per non perdere un cliente. Purtroppo Giuseppe, il proprietario, quando ha detto dei quattro ragazzi speciali “non sappiamo come gestirli” ha dato voce a un sentimento diffuso: quello per cui le persone con sindrome di down sono sì “speciali” ma anche i loro bisogni sono “speciali”. E invece non è così, o non lo è sempre. Perché andare in pizzeria con gli amici non ha nulla di speciale ed è bruttissima la mentalità di chi lo pensa.
Bisogna stare attenti agli eufemismi perché rischiamo di imbellettare con cerimonie cosmetiche solo il nostro egoismo. Le persone con sindrome di Down hanno le stesse esigenze di chiunque altro: andare al ristorante il sabato sera è normale come studiare, lavorare, parlare ed essere ascoltati. Certo, quelle persone possono aver bisogno di un sostegno — che qualche volta significa assistenza vera e propria —, ma questo non cambia la natura di quelle esigenze, cioè non rende “speciali” dei bisogni semplicemente umani. Una persona, ripeto, che ha bisogno di aiuto per parlare, scrivere o essere capita ha gli stessi bisogni, le stesse esigenze, di chiunque altro, cioè vuole semplicemente comunicare. È diverso il grado di assistenza o il modo per soddisfare quel bisogno, non il bisogno stesso.
La CoorDown Onlus — Coordinamento Nazionale Associazioni delle persone con sindrome di Down — tempo fa, proprio a proposito di bisogni speciali, aveva lanciato una provocazione significativa. “Immaginate — aveva scritto — se le persone con sindrome di Down avessero bisogno di mangiare uova di dinosauro, indossare un’armatura, essere svegliati ogni mattina da una celebrity. Questi sì sarebbero sicuramente ‘bisogni speciali’. Ma studiare, trovare un lavoro, avere degli amici, praticare sport non sono invece i bisogni che hanno tutte le persone? Perché allora utilizzare l’espressione “bisogni speciali” che, magari con buone intenzioni, nella realtà si traduce nella creazione di una distanza?”.
La signora che ha denunciato su Facebook l’accaduto aveva evidentemente chiarissimo tutto ciò dal momento che nel suo post ha chiaramente scritto che non solo i bisogni dei ragazzi presenti non erano speciali ma che neppure avevano bisogno di alcun sostegno: «I nostri ragazzi sono adulti ed educatissimi, mangiano tutti rigorosamente con coltelli e forchetta e avrebbero potuto organizzare loro, senza problemi le loro attività».
Il signor Giuseppe, perdonato per la frase “su come gestirli”, ha involontariamente dato voce ha una diffusa percezione profondamente sbagliata della disabilità: persone speciali sì, bisogni speciali no. Al limite, forse. Ma essere trattati con rispetto non dovrebbe avere nulla di particolare. Anche se, purtroppo, pare che il condizionale sia d’obbligo.