Nel rileggere la presente fase storico-sociale si è soliti rimarcare la contrapposizione tra la modernità e l’antimodernità, tra elementi progressivi ed elementi regressivi, tra isole di sviluppo e di innovazione, da un lato, e sacche retrograde, dall’altro. Correttamente intesa, però, la dialettica tra il futuro e il passato non consuma, ma arricchisce, il tempo presente. La storia politica, giuridica e partecipativa della società italiana non è una storia di coesione, è una storia densa di polarizzazioni ed è l’esito di quel confronto a dettare i ritmi dell’evoluzione: quando orientamenti, anche molto distanti o diametralmente opposti, si confrontano, persino polemicamente, e la loro selezione nell’agone pubblico modifica o meno la percezione collettiva.
La battaglia per i diritti civili negli anni Sessanta e Settanta non è un guscio vuoto, non è una teca acquisita, non è una parentesi storica priva di lezioni per il presente. In poco più di un decennio, viene introdotta la disciplina giuridica civile del divorzio (1974) e si mette finalmente un punto alla tanto invocata riforma del diritto di famiglia, parificando la posizione dei coniugi e abbandonando il modello esclusivistico della patria potestà. Nel 1972 entra in vigore l’obiezione di coscienza al servizio militare; nel 1978 è il turno della legislazione in materia di interruzione volontaria della gravidanza. La possibilità di obiettare è normativamente prevista, ma l’uno e l’altro tema (la riforma codicistica del matrimonio e l’aborto) scaldano comprensibilmente gli animi in un Paese immersosi tardi nelle contraddizioni della crescita economica e ancor più tardi nelle contraddizioni della secolarizzazione.
Vale la pena rileggere i nomi controversi di quella fase, gli intellettuali e gli studiosi che, spesso spiazzando i propri stessi sostenitori e allievi, hanno forse talvolta ecceduto nei toni, ma dando almeno nerbo a un dibattito di una franchezza tale che oggi se ne sente la mancanza. Contrario al divorzio fu il grande gius-civilista e letterato Salvatore Satta; ostile a ogni ipotesi normativa di regolamentazione dell’aborto si dichiarava Pier Paolo Pasolini. Fatto curioso: medesima la temperie culturale, lo stesso l’anno di morte. Tragica e irrisolta quella del regista, a causa di un tumore che oggi forse si sarebbe potuto curar meglio quella del giurista. Rileggiamo quelle critiche, vediamo nel riviverle cosa è possibile tesaurizzare.
Satta aveva una vocazione fondamentalmente tragica e pessimistica, ma la sua tempra morale sui grandi temi della società e dell’etica era indiscussa. Era una vera e propria escatologia giuridica, una introspezione continua alla ricerca dei fini ultimi della giuridicità. Singolare poi che il Satta così universalista sulle grandi questioni teologiche e filosofiche fosse minuzioso nell’approccio positivo. Carte parlamentari e riviste del passato stanno a dimostrarlo: Satta lavora alla stesura del codice civile, ma è delusa la sua proposta metodologica di affiancargli un codice di commercio; Satta immagina un articolato di legge fallimentare che non vedrà mai la luce; scarta poi ogni impegno redazionale per il codice della procedura civile, perché le sue proposte (pur dense di una forte vocazione teoretica sull’azione processuale) sono nei fatti minoritarie. Nel perorare l’indissolubilità anche civile del matrimonio, sarebbe ingeneroso imputare a Satta un oscurantismo figlio del passato: in fondo, Satta è a proprio modo anche riformatore, di quella leva di giuristi che segna il superamento della codificazione liberale ottocentesca e che è forse poco fortunata e coesa a rivendicare, anche davanti al governo fascista, gli imperativi di una revisione di quel modello. L’indissolubilità matrimoniale è anelito, impegno, “cosa giurata”, certezza degli statuti personali.
Così Pasolini, agli antipodi di Satta certamente nello stile, nel modo d’essere percepito dall’opinione pubblica e forse pure dai circoli accademici, sull’aborto diventa sentenzioso quanto nemmeno la meditabonda penna sattiana mentre vergava articoli e interventi contro la legge 898 del 1970 introduttiva del divorzio.
Equivocato e contestato il “no” all’aborto da parte di Pasolini, tra l’altro in rapporti amichevoli col Partito radicale che caldeggiava all’opposto una legge organica. L’opinione pubblica progressista che ne esibiva il piglio intellettuale si trovò spiazzata davanti a una ritrosia siffatta (esattamente come successe a Sciascia quando mise a verbale la sua perplessità sulla depenalizzazione delle droghe). Anche l’opinione conservatrice, però, era incerta: come recepire la critica antisecolare dell’artista omosessuale, se il vero elemento di condivisione era dato dalla contrarietà all’aborto e per alcuni, al più, dalla difesa affettiva della tradizione contadina?
La critica di Pasolini all’aborto, va detto, è esibita e altisonante e ha sollecitato attenzioni negli studi di psicologia: il trauma del feto abortito è forse legato agli atavici affetti materni e l’aborto appare a Pasolini come la conferma del (per lui) non giustificato primato del coito eterosessuale non riproduttivo.
E però questo Pasolini, che ha in sospetto la stagione dei diritti civili e che elogia la matrice proletaria (invero, né sempre vera né sempre avvertita) delle forze di polizia, è quanto il Satta giurista delle riforme mancate una lettura da tenere in grande considerazione. Dissonanze di una storia, quella italiana, che contiene tante, molte, troppe storie che non possono essere ridotte a voce unica dall’oblio e dalla confusione.