Io capisco che difendere l’indifendibile sia lavoro usurante e a tempo pieno, quindi potenziale veicolo di burnout professionale e umano per chi lo pratica ma dovrebbe esserci un limite a tutto. Anche alla piaggeria. O al ridicolo. Questo governo, dove aver minacciato la Terza guerra mondiale in difesa della sua Manovra economica da minus habens, ora staziona con primo ministro e ministro dell’Economia stabilmente a Bruxelles con il cappello in mano, accettando qualsiasi diktat, pur di evitare quella stessa procedura di infrazione contro cui fino all’altro giorno opponevano un me ne frego da versione social del Ventennio. Cosa stia accadendo in Parlamento, meglio nemmeno commentarlo: ormai vado a letto la sera sperando nell’esercizio provvisorio, come si spera nella pioggia purificatrice di manzoniana memoria. Eppure, il Governo gode ancora di supporto altissimo fra gli italiani. I due partiti che lo compongono, insieme, veleggiano attorno a quota 60% per tutti gli istituti demoscopici: a quanto pare, il livello di esasperazione verso le classi dirigenti precedenti è ancora talmente alto da garantire un amplissimo cuscinetto di ammortizzazione dal tradimento delle promesse elettorali e dal dilettantismo ormai conclamato.
Sabato uno dei due vice-premier e, di fatto, azionista di maggioranza dell’esecutivo, il ministro Matteo Salvini, mostrerà i muscoli ad avversari e alleati con la prova di forza delle piazza a Roma: sarà il battesimo del fuoco e la nascita ufficiale del nuovo soggetto politico sovranista e a vocazione nazionale, l’addio politico e definitivo alla Lega che fu di Bossi e di Miglio, il quale grazie al Cielo non è qui a vedere lo scempio che si è fatto delle istanze federaliste a autonomiste delle origini.
Questo il quadro, per sommi ed estremi capi. Ma temo che sabato sarà altrove il banco di prova di questi tempi incerti e pericolosi: salvo cambiamenti dell’ultim’ora, i “gilet gialli” francesi torneranno in piazza a Parigi. E con un obiettivo dichiarato: la Bastiglia, simbolo che più evocativo non può esistere per un francese. Comunque sia orientato politicamente. Mentre scrivo, infatti, i leader più duri del movimento di protesta hanno risposto picche alla clamorosa calata di braghe del Governo francese e dell’Eliseo, il quale – in perfetta corrispondenza con le spavalderie romane – prima ha minacciato la mano pesante contro le violenze e la sua totale indisponibilità a cedere ai ricatti della piazza, poi ha non solo aperto al dialogo, ma addirittura prorogato di sei mesi l’entrata in vigore degli aumenti sul prezzo del carburante, madre di tutte le battaglie del movimento di protesta. Esattamente come il nostro Governo nei confronti della Commissione Ue, soltanto da prospettive politiche diverse. Dei chiaccheroni, punto. Anzi, citando un mito del cinema, tutti chiacchiere e distintivo.
Ma c’è una differenza, sostanziale. E terribilmente pericolosa, come precedente. In Italia, il Governo ha dimostrato un misto di infantilismo e cialtronaggine, facendoci pagare i costi di mesi di falsa contrapposizione con Bruxelles a livello di spread, ma non ci sono stati morti e feriti, a parte l’intelligenza. In Francia, invece, sì. Ed Emmanuel Macron, dal basso del suo 26% di gradimento (al pari del peggiore e già giubilato Hollande), con la scelta del suo Governo di cedere alle richieste dei manifestanti, ha legittimato l’uso della violenza di piazza come mezzo di trattativa politica. Rapido ed efficace. Oltretutto, sondaggi alla mano, anche “gradito” alla maggioranza dei francesi, i quali sostengono la lotta dei “gilet gialli”, al pari del nostro Governo di descamisados attualmente in crisi d’identità. Si possono fare tutte le dotte disquisizioni politologiche e sociologiche che si vogliono, si può spaccare il capello dei distinguo in quattro, ma, alla fine, il dato è quello: il Governo non solo non ha saputo (o voluto) prevenire gli incidenti, nonostante dispositivi di sicurezza da stato di emergenza a Parigi in occasione delle proteste, ma, facendo retromarcia in maniera così palese e incondizionata sulle sue politiche, ha legittimato molotov e scontri come mezzo per la risoluzione delle controversie. Precedente esplosivo, di questi tempi.
Perché signori, salvo colpi di scena, a brevissimo termine anche la situazione per il Brexit e per il Governo di Theresa May si mette male davvero in vista del voto parlamentare dell’11 dicembre, al netto anche del via libera della Corte europea a un possibile disconoscimento unilaterale di Londra di quanto deciso dal referendum. Paradossalmente, il prossimo fine settimana si giocano i destini reali, strutturali, sistemici e politici dell’Europa che affronterà la prossima crisi finanziaria e la conseguente recessione. E signori, non sono belle prospettive. Perché con la Germania mai così politicamente debole dal Secondo dopoguerra e la Francia governata da un esecutivo sotto ostaggio dei manifestanti, un’eventuale bocciatura del Brexit da parte di Westminster, con conseguente caduta del Governo e ritorno al voto del Regno Unito, potrebbe davvero portarci in dote uno sgradito e sgradevole regalo di Natale anticipato: il caos.
Il tutto, in attesa che giovedì 13 dicembre Mario Draghi inneschi o disinneschi la carica esplosiva che si trova sotto la montagna di criticità e contraddizioni economico-finanziarie dell’Unione: se non ci sarà un’indicazione chiara sul livello di sostegno alternativo al Qe che l’Eurotower garantirà nel 2019, temo che partirà un effetto domino difficilmente controllabile. E, state certi, saranno di nuovo i nostri Btp il canarino nella miniera. Oltretutto, nel pieno di una trattativa tutta in salita con la Commissione Ue e di un’entropia da film demenziale a livello politico interno. Stiamo giocherallando con un accendino nei pressi di un distributore di benzina.
Io non so se, come dicono molti analisti sicuramente più saggi e preparati di me, il Movimento 5 Stelle sia l’argine proprio a una deriva violenta della protesta sul modello francese: può essere, quantomeno al Sud. E non so se il parossismo securitario del ministro Salvini stia evitando scene da Far West fra la popolazione esasperata dall’allarme per criminalità e immigrazione al Nord. So questo però: ovvero, che la protesta dei “Gilet gialli” ha fatto male economicamente a una Francia che già deve fare i conti con un livello di indebitamento privato che sta andando fuori controllo, come certificato da Bank of America. E il secondo grafico deve far riflettere: mette in comparazione l’andamento degli ultimi giorni dell’indice benchmark della Borsa di Parigi, il Cac40, con quello di tre titoli-simbolo rispetto all’impatto delle proteste. Ovvero, Carrefour – che tutti conoscete – e i gestori di infrastrutture stradali Accor SA e Vinci SA.
Il primo ha patito un vero tracollo delle vendite, addirittura fino al 20% in alcune aree, a causa del mancato shopping o dei furti e degli atti di vandalismo, mentre i secondi due hanno pagato lo scotto ai mancati pedaggi incassati, visto che i “gilet gialli” obbligano i casellanti a far passare gli automobilisti senza pagare. Vogliamo parlare del turismo, vero e proprio oro per una città come Parigi e per l’intero Paese? Pronti, prenotazioni crollate anche in questo caso fino al 25% anche per il periodo natalizio e di Capodanno, dinamica rivelatasi ancora peggiore per i solitamente pienissimi ristoranti e bistrot della Capitale: fino al 50% in meno di presenze.
Martedì, poi, mentre il Governo annunciava la moratoria di sei mesi e il 70% degli interpellati da un sondaggio condotto da Bva per La Tribune riteneva che questa mossa avrebbe dovuto porre fine alle proteste, ecco il dato della paura vera: stando a uno studio Nielsen, le sole proteste di sabato 1 dicembre hanno comportato un calo medio dell’8% di vendite di beni di largo consumo a livello nazionale. A quel punto, il Governo è capitolato. Ma non è bastato. Perché dopo le minacce di morte all’ala moderata che voleva accettare l’invito al dialogo del Governo, i leader del movimento hanno rilanciato, confermando e anzi caricando di ulteriori significati l’appuntamento di dopodomani a Parigi. Dove sono attesi 160mila manifestanti e quasi 75mila tra agenti e gendarmi, con alcune sigle sindacali delle forze dell’ordine che hanno chiesto al ministro dell’Interno, Christophe Castaner, anche l’ausilio dell’esercito.
Signori, anche se l’Eliseo non lo ha proclamato ufficialmente come fece Hollande dopo la strage del Bataclan, la Francia nostra dirimpettaia e seconda forza dell’Ue è in stato di emergenza. E sta affrontando una rivolta sociale di massa come non si vedeva dal Maggio 1968, cui si contrappone però uno dei governi più deboli e meno supportati dall’opinione pubblica della storia politica recente. E, ciliegina sulla torta, alla vigilia di una nuova crisi economico-finanziaria. Attenzione a quanto dichiarato lo scorso fine settimana da Marine Le Pen, la quale dopo aver sostenuto che il Governo avrebbe dovuto ritirare il provvedimento sugli aumenti del prezzo del carburante, si è lasciata andare a una previsione da brividi: «Macron potrebbe diventare il primo Presidente francese a ordinare alle sue truppe di aprire il fuoco contro il suo popolo in 50 anni». L’esecutivo ha ritirato gli aumenti, congelandoli per sei mesi, ma la piazza non intende recedere. Anzi, rilancia: o vengono del tutto cancellati o la lotta continuerà a oltranza.
Attenzione ai tre giorni che ci porteranno dalla presa della Bastiglia 2.0 (a meno che non vi siano ripensamenti dell’ultim’ora, auspicabili) di sabato 8 al voto parlamentare a Westminster dell’11 dicembre: il destino dell’Europa sta tutto concentrato lì dentro, compresa l’adunata oceanica romana che incoronerà Matteo Salvini primo ministro in pectore. Se salta il tappo della coesione sociale e passa la linea della violenza come unica canzone che il potere è costretto ad ascoltare, nemmeno Mario Draghi potrà compiere il miracolo. E chi ha creduto in Emmanuel Macron come leader di una nuova Ue dovrà non solo battersi il petto. Ma tacere e sparire per sempre dalla scena politica, culturale e intellettuale. A due anni dalla promessa in tal senso, prontamente disattesa.