La scuola non è mai stata tanto “attuale” e migliaia di docenti aspettano con ansia le prossime festività di Natale per sapere se mangeranno l’ultimo panettone ancora in servizio nella scuola del terzo millennio. Con l’imminente legge di bilancio, infatti, andranno forse in pensione, dopo che la ministra Fornero, lacrimando, aveva loro annunciato altri sette anni di lavoro in più rispetto ai colleghi più fortunati nel 2011.
Eppure chi rimarrà nella scuola italiana dovrebbe essere rincuorato: pezzo dopo pezzo gli attuali governanti stanno smontando un agglomerato di disposizioni e leggine che è stato chiamato “Buona Scuola”, approvata — ricordiamolo — con due voti di fiducia dal governo Renzi. Chi rimane vede la scuola “reale”, assai diversa da come viene descritta dalle note ministeriali e dalla macchina propagandistica che valorizza poche oasi di sperimentazione e innovazione. Pensiamo ad esempio alla scuola pugliese di cui è stato preside il sottosegretario Salvatore Giuliano. E gli altri?
I docenti che ancora credono nel valore formativo e nella missione educativa stanno in attesa di un cambiamento, di una vera “riforma”, isolati nel silenzio assordante del deserto dei Tartari; ci si potrebbe consolare che sono arrivati i docenti potenziatori, spesso di discipline nemmeno presenti nel curricolo della scuola. I dirigenti, oltre ad occuparsi di più scuole data la carenza cronica di colleghi (si parla di reggenze, con un’indennità prevista irrisoria), si sono almeno liberati della famosa chiamata per competenze o chiamata diretta: corre leggenda che nel primo anno di applicazione, qualche italico ingegno abbia più volte valorizzato l’aspetto estetico dell’aspirante professoressa che il suo cv (ci sono state interpellanze parlamentari).
Dalla cronaca recente si apprende che, in provincia di Vicenza, tre ragazzine di appena 15 anni sono andate a scuola alla prima ora totalmente ubriache: avevano ingurgitato un mix di bevande alcoliche a base di vodka e gin prima di entrare a scuola. Sapevano che non ci sarebbe stata lezione normale ma un’assemblea d’istituto. Sono tutti al Beccaria di Milano (non si tratta del blasonato liceo) i quattro minorenni — italiani — tra i 14 e i 15 anni di Varese che hanno segregato e torturato in un garage un quindicenne per estorcergli informazioni su un altro coetaneo che aveva un debito di 40 euro per droga nei confronti dei delinquenti.
Allora, in un paese “normale”, si aprirebbe un dibattito serio e pacato sul modello di società che vorremmo per i nostri ragazzi, interrogandoci sul ruolo e la funzione della scuola, ciò che resta dell’unica agenzia formativa ed educativa di queste generazioni sempre più connesse con il web e con un realtà sempre più ispirata al panta rei.
A vedere il programma preserale di Rai3 “Alla lavagna!” cresce il sospetto che la “narrazione” — parola ormai entrata nel gergo della comunicazione politica — sia ben diversa dalla realtà di ogni giorno per chi entra in aula. Come, in opposizione, vi è un’inchiesta giornalistica sul sito di Repubblica chiamata “Scuole di frontiera”: si tratta di “storie di insegnanti in trincea che lottano tutti i giorni per fare il loro lavoro, in zone periferiche”. Ma esiste anche una scuola “normale” come quella di tutti i giorni?
Certo che esiste! Lo sanno bene le studentesse, gli alunni e le famiglie che credono ancora nella scuola. L’Italia, dove nel 2013 la percentuale dei docenti con meno di 40 anni era solo del 10%, è il paese con gli insegnanti “più vecchi” d’Europa: grazie a Quota 100 e all’abolizione di pezzi della Fornero, molte colleghe (quasi l’80% del corpo docente è femminile) andranno in pensione senza ulteriori penalizzazioni e i giovani reclutati si chiederanno come sarà possibile affrontare al meglio sotto il profilo educativo le grandi sfide che li attende: i due episodi menzionati sono solo l’avvisaglia.