Lo spread infuria, il Pil ci manca, sul ponte sventola bandiera bianca? Molto lo farebbe pensare, ma tutto, alla fine, induce ad escluderlo, almeno nei tempi brevi che in non pochi sembrerebbero augurarsi. Proprio per questo, però, c’è da chiedersi cosa mai stia avvenendo.
La “guerra del Def” continua sotto altre forme. All’annuncio del baratro finanziario, del disastro economico, del flagello per risparmiatori, mutuatari e pensionati, che fin qui giornalmente veniva dispensato, si è sostituito un nuovo coro che recita: sono dovuti tornare indietro, le loro erano solo promesse elettorali, non faranno niente di quel che avevano detto e quel che è successo fin qui è solo una grande messinscena, un ultimo inganno per dire “avremmo voluto farlo, ma ce lo hanno impedito”.
E accanto a questo fronte centrale si accendono guerriglie su scenari minori: dal condono fiscale (seppur limitato), al condono edilizio di Ischia (ancorché circoscritto ad un pugno di abitazioni abusive), dalla in effetti gravissima riforma della legittima difesa alla “forcaiola” (?) riforma della prescrizione penale. Fino agli abusi edilizi (sanati?) del padre di Di Maio e ai dipendenti in nero (1 o 2) della sua micro-impresa.
Che questo governo giallo-verde inanelli una serie sorprendente di gaffe e non poche malefatte è indubbio. Che abbia scelto la propaganda in luogo della politica e il pressappochismo in luogo della riflessione è indiscutibile. E che Di Maio si mostri almeno inadeguato lo è altrettanto: soprattutto perché persevera nello stile del miles gloriosus invece che cercare un qualche rapporto di verità con la sua gente e con il paese. Ma la censura che contro di loro giornalmente si esercita sembra andare un po’ oltre la critica dovuta e la fronda consueta.
Che lo faccia l’opposizione ci sta. Sebbene possa sorprendere un po’ che le dichiarazioni del Pd in molte di queste materie appaiano pressoché sovrapponibili a quelle di FI. Per il vero, ci potrebbe stare anche questo, se il bersaglio fosse costituito da iniziative e provvedimenti governativi che vanno “oltre” ogni valutazione politica di parte: tutti sulla stessa trincea a difesa delle sacre frontiere! Ma così talvolta non è. E questo, forse, potrebbe indurre a riflettere sulla sagacia politica di queste opposizioni.
Ma questa fronda, che sembrerebbe senza quartiere, non coinvolge soltanto le opposizioni politiche. Vede in prima fila, quasi a dettar la linea, i mass-media più influenti ed i loro più autorevoli opinionisti. Il che, forse, è un po’ meno comprensibile. E però, poiché non sembra ragionevole immaginare che tutti questi autorevoli personaggi abbiano perso l’intelligenza politica che li ha fin qui contraddistinti, allora è d’uopo chiedersi a cosa guardi questa lotta senza quartiere.
La risposta, che solitamente si legge, è che la democrazia è in pericolo, le storiche alleanze internazionali a rischio, l’economia sull’orlo del baratro e che, perciò, ciascuno, a partire dal luogo in cui opera, è chiamato a fare la sua parte in difesa dei valori dell’occidente.
Sarà magari così. E tuttavia l’intelligenza politica di quanti, ventre a terra, si sono gettati in questa mischia deve far presumere che si siano chiesti verso dove tutto questo possa condurre: non per desistere dalla lotta, ma per lavorare al futuro.
Che tutto questo abbia come obiettivo la più o meno immediata caduta di questo governo giallo-verde sarebbe, in altre circostanze, abbastanza ovvio.
Ma è difficile pensare che sia così. Solo chi scambia i desideri per realtà può immaginare che la caduta del governo giallo-verde possa condurre a qualcosa di simile ad un governo tecnico. Salvini ha mostrato una sagacia politica che fa escludere radicalmente un’ipotesi del genere. Per cosa dovrebbe abbandonare la posizione di guida e leader del governo, che di fatto ha conquistato? Forse per appoggiare un tecnico, che contraddice il primato della politica su cui ha conquistato tutto il suo successo? Anche quando gli concedessero pensioni e migranti, gli toglierebbero comunque la visibilità e centralità politiche, che il governo gli dà e con le quali ha quasi raddoppiato nel giro di pochi mesi la sua base elettorale. E poi, per un governo tecnico, che mai potrebbe avere l’appoggio del “cacciato” M5s, non ci sarebbero i numeri: ci vorrebbe, almeno, l’appoggio esterno del Pd, ma il Pd, nonostante tutte le sue ambiguità, non se lo potrebbe mai permettere senza decretare la propria definitiva estinzione, almeno prima di un ritorno alle urne con le “mani libere”. Come, poi, si potrebbe presentare al proprio elettorato dopo aver per tanto tempo demonizzato Salvini? Anche l’elettorato moderato del Pd (che non è poco) ha bisogno di salvare la faccia, se non l’anima.
Né si può immaginare un governo M5s-Pd, magari costituito sulla spinta di moral suasion esercitate nel nome della salvezza nazionale. Ancora una volta, non c’è nessuno nel Pd, ma proprio nessuno (neanche Zingaretti, per intendersi), che in questo momento sia in grado di assumere un’iniziativa del genere senza perdere almeno metà dei propri eletti (i fedeli di Renzi). E anche lo stesso M5s non potrebbe imbarcarsi in una simile svolta senza un rivolgimento della propria leadership, che potrà magari avvenire ma che ha bisogno di tempi incompatibili con una tal ravvicinata prospettiva.
E allora? Nonostante tutto, può sembrare che qualcosa si cominci a capire.
c quella di mettere cunei nel “contratto” tra Salvini e Di Maio: dal blocco delle grandi opere (che frustrerebbe le aspirazioni espansive del nord), al Decreto dignità (che, rendendo un po’ più difficili i rinnovi delle assunzioni a termine, deluderebbe le aspettative soprattutto delle piccole imprese settentrionali alla flessibilità del lavoro), al reddito di cittadinanza (che elargirebbe assistenza al solito Sud indolente), ogni possibile argomento (e certo non ne mancano) viene impugnato per chiamare la Lega alla sua vocazione nordista e alla vena piccolo-borghese di una larga parte del suo elettorato. Un coro, sommesso ma crescente, sembra sollecitare la Lega ad abbandonare quella “banda di straccioni” che si raduna sotto le bandiere del M5s, e a guardare oltre, verso alleanze finalmente costruite all’insegna di un’espansione economica che favorisca la crescita necessaria a finanziare un welfare pensionistico insediato soprattutto nel Centro-Nord.
Ma, a fianco a questa, un’altra strategia si viene sempre più delineando, la quale appare rivolta a spaccare/frantumare il M5s: dalla contraddizione tra la proclamata “onestà” e i vari condoni messi in agenda da questo governo, alla contraddizione tra il moderato “umanitarismo” prima mostrato verso i migranti e l’ostentata durezza della politica di Salvini, ai mal di pancia sulla riforma della legittima difesa, all’aperta divaricazione tra l’originaria diffidenza verso le grandi opere e l’approvazione del Tap o tra la declamata primazia della salute e il consenso alla cessione ed alla riapertura dell’Ilva, fino alle divergenze sulla ratifica del Global compact, è ripreso e amplificato ogni argomento che contrapponga la vena “di sinistra” della parte forse maggioritaria del Movimento alla gestione “di destra” che l’attuale suo gruppo dirigente finirebbe col fare del suo voto. Un altro coro, più sommesso ma sempre crescente, sembra sollecitare il Movimento alla rivolta contro una tale deriva “destrorsa”, richiamandolo alla purezza delle origini e indicandone in Fico e Di Battista i soli che potrebbero salvarla.
Dunque, due strategie, che lavorano a tenaglia: da un lato, la rottura del contratto Lega-M5s e la liberazione della Lega dall’ipoteca “popolare” e “meridionale” del M5s e, dall’altro, la spaccatura del M5s, il suo discredito e la sua deflagrazione, con l’atteso ritorno di buona parte del suo elettorato alle sicure sponde del Pd. Una duplice strategia, perciò, che non è per domani, ma punta piuttosto a nuove elezioni nei ben più lunghi termini che un tale obbiettivo richiede.
Quel che allora c’è da chiedersi è: con che prospettive queste strategie? E che senso se ne ricava?
Le prospettive non sono difficili da immaginare se si considerano i plausibili futuri scenari elettorali.
Da un lato: tutti danno la Lega intorno al 30%, ed è verosimile; FI viaggia intorno all’8%, e si può essere certi che se guadagnasse qualcosa lo farebbe a scapito della crescita della Lega. FdI si stima al 2% o poco più, e vale per questo partito quel che si è detto per FI: se cresce toglie in qualche misura alla Lega. Questo significa che c’è un blocco “di destra” che raggiunge pressappoco un tetto del 40%, il quale non è difficile abbia un effetto di trascinamento che lo spinga oltre la soglia dei premi elettorali che attribuiscono la maggioranza in parlamento.
Dall’altro lato: il M5s, che tutti danno in forte calo, perderà verosimilmente quel che ha guadagnato nel marzo del 2018, ma è altrettanto inverosimile che scenda sotto il 20%; Il Pd sembra sia destinato a star dentro una forbice che va, a guardare le cose per bene, dal 10 al 20%, e non tanto a seconda che si presenti con vesti che ricordano troppo Renzi (Minniti) o che più o meno apertamente lo rinneghino (Zingaretti), ma perché sconta un’incognita, quella che Renzi finisca per costituire un partito proprio, ed una quasi-certezza, quella che non riesca a recuperare tutti i voti migrati verso il M5s (quel passo, ai più, è costato e indietro non si torma facilmente, specie se l’approdo rimane lo stesso o è ancora incerto); Leu e Pap risentiranno, positivamente o negativamente, di quel che farà il Pd, ma difficilmente rastrelleranno insieme più del 5-6%; anche da questo lato, dunque, si profila un parterre elettorale cui, astrattamente, non sarebbe precluso di sperare in un fatidico 40%, ma solo se concludesse un’alleanza che definire altamente problematica appare abbastanza ottimistico. Mentre – va aggiunto – confidare, più o meno segretamente, in un effetto-Draghi (alla guida di un centro-sinistra) si mostra – se possibile – ancor più ottimistico, semplicemente perché suppone che niente sia accaduto, e stia accadendo, nella vissuto e nella testa degli elettori non solo italiani (si pensi, da ultimo, alla Francia).
Il senso che da questo già si ricava è duplice, e parla soprattutto dell’establishment.
Il primo è che le due strategie prima delineate illustrano, sì, due anime diverse dell’estasblishment, quella maggioritaria più “utilitarista” e quella minoritaria più “liberal”, ma entrambe abbastanza ciniche perché, magari nell’interesse supremo della salvifica crescita (che però, ahimè, proprio tutti non può salvare), non disdegnano di acconciarsi ad un governo di cosiddetto centro-destra (dove il centro sarebbe Berlusconi) a guida Salvini. Ad entrambe queste anime è, infatti, comune un’idea cruciale, che il vero corpo estraneo dell’odierno panorama politico è il M5s: parla un’altra lingua (magari molto sgrammaticata, anche politicamente), non ha le frequentazioni appropriate (si direbbe: non gli si può parlare), e soprattutto mette in circolo, senza rendersene conto (ché non si sente, e non è, propriamente un partito “di sinistra”), questioni (la povertà e il reddito di cittadinanza, la precarietà e la critica del Jobs act, il meridione, ecc.) che potrebbero coagulare un disegno che non è proprio il caso di coltivare. Sicché su di esso l’establishment sa di non poter fare affidamento. E questo tronca ogni discorso.
Il secondo è che, così, questo establishment mostra, ancora una volta, di avere uno sguardo corto e di non capire quel che sta avvenendo in Europa e nel mondo: i “gilet gialli”, forse, evaporeranno presto, ma quel che li ha mossi resta lì, e dovrebbe preoccupare tutti gli “uomini di buona volontà”, e quelli di buon senso, quelli che rimangono in grado di comprendere il valore cruciale della coesione sociale.