Come nella Francia dei gilet jaunes, le inquietudini e le conflittualità crescenti dentro e attorno il mondo degli industriali italiani sembrano emergere all’improvviso e non prestarsi a facili letture. Quel che è certo, a Parigi come in viale dell’Astronomia, è che difficilmente tutto resterà come prima. Sabato mattina Il Sole 24 Ore — di cui Confindustria è patron — ha aperto la prima pagina un “appello agli imprenditori” firmato dal vicepremier pentastellato Luigi Di Maio. Era ancora vivo, a Milano, l’eco delle ovazioni tributate alla Scala al presidente Mattarella, prima che “Attila” rappresentasse i “barbari” all’opera. Lo stesso 8 dicembre era in programma — e si è svolta regolarmente — una giornata dell’orgoglio leghista a Roma.
Nelle stesse ore, nella Torino del sindaco Appendino, è andata in scena una manifestazione “No ai Sì-Tav” che ha mescolato grillini “puri” e antagonisti dei centro sociali, uniti nel ribadire un’opposizione frontale allo “sviluppismo” via grandi opere/grandi eventi. Sullo stesso nodo e nella stessa città, pochi giorni prima, il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia aveva invitato alle dimissioni il premier (grillino) Conte: polemizzando nel contempo con il vicepremier leghista Salvini. E questo è accaduto poche settimane dopo un controverso endorsement di Boccia alla Lega davanti ad alcuni industriali del Nordest (e in quell’occasione il leader di viale dell’Astronomia aveva dovuto incassare un duro comunicato da parte dei giornalisti del Sole, critici su ogni forma di collateralismo politico del socio di maggioranza del giornale). Non da ultimo: Di Maio ha monopolizzato la prima del Sole alla vigilia di un singolare “caffè domenicale” cui lo stesso Salvini ha invitato Confindustria e altre 11 organizzazioni imprenditoriali critiche sulla politica economica dell’esecutivo. Il caffè è stato regolarmente servito, così come i comunicati a seguire: “Finalmente ci hanno ascoltati” (Boccia); “Incontro positivo” (Salvini).
Ce n’è abbastanza per interrogarsi sul momento degli industriali italiani, senza trascurare altri segnali collaterali: come l’anticipazione — sempre sabato su Milano Finanza — circa un progetto di ri-aggiustamento statutario della Confindustria cui starebbe lavorando Boccia. Una mossa qualificata dal settimanale milanese come tentativo di “controriforma romana”, allorché la campagna interna per il rinnovo 2020 del presidente è virtualmente avviata.
Confindustria vanta una vocazione “governativa” sempre discussa ma mai infondata. In viale dell’Astronomia ha sede uno storico “corpo intermedio” di un Paese che da settant’anni è una democrazia di mercato. Nella democrazia italiana del 2018 la principale forza di governo è M5s e il vicepremier Di Maio tiene le deleghe allo Sviluppo economico e al Lavoro: è il diretto interlocutore degli industriali e dei sindacati. Aprirgli direttamente la prima pagina del Sole — che pure non è più l’house organ di Confindustria, ma un quotidiano d’informazione quotato in Borsa — appare indubbiamente forzato, ma non senza precedenti e comunque non oltre la “linea rossa”. È altresì vero che il giornalismo — che oggi in Italia denuncia minacce alla sua libertà — ha consolidato altri format per mantenere a “distanza di braccio” i poteri con cui vuole interloquire da vicino: l’intervista o la lettera.
La trasformazione di Di Maio in prima firma sulla prima pagina del Sole, d’altronde, ha colpito soprattutto per questioni di merito. Nei primi mesi di governo, ha visto la luce con il timbro M5s anzitutto il “decreto dignità”: di fatto una prima mossa “controriformistica” sul Jobs Act. Da un lato — il principale — il provvedimento è sembrato frenare nei dati Istat i faticosi spunti di ripresa dell’occupazione: se addirittura non li ha invertiti. Dall’altro, il decreto ha segnato l’inizio di una singolare scissione nell’opinione pubblica del Nord: presto disamorata di un governo “novecentista” su mercato del lavoro e relazioni sindacali; ma per nulla toccata — almeno nei sondaggi — nella volontà tendenziale di affidare alla Lega la guida del governo, evidentemente senza più il M5s “meridionalista” a bordo.
Le tensioni fra mondo industriale e componente “gialla” del governo si sono aggravate a cavallo del tragico crollo di Genova: per l’ansia mostrata dal premier e dal ministro delle Infrastrutture nel ventilare la revoca della concessione ad Atlantia (gruppo Benetton) e nel rimettere in discussione l’intera politica della concessioni pubbliche. E se l’approccio statalistico ai dossier Alitalia e Tim ha fatto storcere altre bocche in campo industriale, il culmine della contrapposizione è sicuramente maturata in occasione della manovra 2019: che ha depennato la conferma di “Industria 4.0” e sostanzialmente rinviato gli alleggerimenti fiscali promessi dalla Lega come flat tax; dando invece spazio quasi esclusivo al discusso “reddito di cittadinanza”, cavallo di battaglia elettorale M5s. È stato d’altronde questo orientamento di politica economica a provocare il rialzo dello spread, con nuovi impatti sensibili sulla stabilità bancaria, il credito, la ricchezza finanziaria delle famiglie e le aste dei titoli di Stato. In parallelo, l’escalation fra Roma e Bruxelles sui conti ha portato alla dirompente apertura di procedura d’infrazione da parte della Commissione Ue: contro un Paese fondatore dell’Unione e seconda manifattura europea (e proprio il Sole è storico guardiano dell’ortodossia europeista italiana).
Non ha sorpreso che in questo scenario la Confindustria di Boccia abbia assunto posizioni via via più critiche verso il governo, diventando in talune rappresentazione mediatiche, anima di un “partito del Pil” o di una sorta di “governo ombra” con una voce — quella del presidente — che è giunta a chiedere le dimissioni del premier, rispolverando le tesi degli ultimi Stati generali pre-elettorali tenuti a Verona: una serie di orientamenti “sviluppisti” che sembravano coerenti con un esito politico-elettorale allora gettonato (una tenuta di Pd renziano e di FI, funzionali alla nascita di un governo centrista di coalizione). Dall’altro lato, negli ultimi giorni, Confindustria è attivamente intervenuta nell’impasse politico-finanziaria: chiedendo che nella “rimodulazione” della manovra italiana oggetto di trattativa con Bruxelles una parte delle risorse destinate al reddito di cittadinanza vengano riallocate presso le imprese, anzitutto con il ripristino degli incentivi digitali a “Formazione 4.0”.
È su questo sfondo che sembra assumere significato l’ostentata ”chiamata al tavolo” di Di Maio sulla prima pagina del Sole: in chiave di confronto su un possibile patto fra un M5s “ravveduto” sul reddito di cittadinanza e una Confindustria “neo-governativa” soddisfatta da risorse concesse in prima battuta dal vicepremier ”competente” M5s (e non dal collega leghista).
Perché stupirsi d’altronde se proprio in questa fase il silenzio-dissenso diffuso in larghi settori di Confindustria al Nord tende a trasformarsi in segnali aperti di contrarietà? Ciò a maggior ragione se circolano indiscrezioni su una possibile “controriforma” della Carta Pesenti (vecchia di appena quattro anni e significativamente firmata da uno storico industriale del Nord). E se l’obiettivo intuibile è ridare spazio alle piccole organizzazioni territoriali basate al Centro-Sud e — in parte — anche alla burocrazia associativa di viale dell’Astronomia.
Assolombarda, la più grande territoriale italiana, è all’opposizione di Boccia fin dal primo giorno. Ha boicottato, fra l’altro, l’aumento di capitale varato un anno fa nel tentativo di salvataggio dello stesso Sole. Né ha mancato di avviare una “diplomazia parallela” con le grandi forze politiche, in apparente concorrenza con Confindustria. È d’altronde noto che tre anni fa nel Nord allargato fra Lombardia, Emilia e Triveneto la maggioranza degli industriali avrebbe preferito il bolognese Alberto Vacchi (e in campo politico Carlo Calenda, predecessore di Di Maio allo Sviluppo, oppure, in prospettiva, Beppe Sala, sindaco-manager della Milano dell’Expo).
Tra anni fa Boccia ha prevalso per un pugno di voti, in parte provenienti dai grandi gruppi pubblici oggi associati a Confindustria (Eni, Enel, Poste, Ferrovie). Allora il voto pro-Boccia fu azionato dal governo Renzi, che ne ebbe in cambio fra l’altro l’appoggio nella campagna referendaria del 2016. Oggi il governo gialloverde è ancora in fase attendista. La Lega sembrerebbe gradire un’uscita degli associati statali da Confindustria, presumibilmente facendo cosa non sgradita agli industriali del Nord. M5s (come rivela l’ultimissimo “caso Di Maio”) pare invece più propenso al flirt con una Confindustria strutturalmente aperta a dialogare con ogni governo (eloquente anche l’ospitalità data dal Sole a Marcello Minenna, funzionario Consob candidato pentastellato alla presidenza dell’authority).
L’approccio “governista” di Confindustria è stato peraltro largamente mutuato dalla Fiat, per decenni primo gruppo industriale italiano, nonché “associato di maggioranza relativa” in viale dell’Astronomia, dove alla presidenza si sono succeduti Gianni Agnelli e Luca di Montezemolo. Ma il Lingotto ha rotto bruscamente con viale dell’Astronomia quando Sergio Marchionne ha rovesciato definitivamente il tavolo della concertazione sulla ristrutturazione di Pomigliano. Il caso Fca non sembra peraltro estraneo neppure ai sommovimenti correnti nel mondo industriale.
Scomparso Marchionne, il gruppo — con sede in Olanda e quartier generale negli Usa — ha ormai ben poco di italiano: salvo la necessità di procedere a una ristrutturazione finale delle attività Fiat in Italia. E quando per 3mila dipendenti di Mirafiori sono stati appena decisi 12 mesi di cassa integrazione, si è avuta conferma di quanto Fca possa avere tuttora necessità di un confronto fattivo con il governo e i sindacati in Italia. Non è escluso, anzi, che il Lingotto abbia di nuovo bisogno di Confindustria. È altresì probabile che preferisca bypassare il confronto con la Lega a favore di canali statali-romani con M5s: gestore della municipalità torinese; fresco ispiratore dell’ipotesi di “ecotassa auto”; forza politica maggioritaria al Sud, dove sono localizzati gli impianti Fiat di Melfi, Cassino e Pomigliano.
È storica, d’altra parte, la distanza fra l’industria e la finanza piemontesi e Fiat-centriche e quelle “lombardo-venete” (l’asse di un tempo fra Torino e Mediobanca è ormai agli annali). In ogni caso: quando Boccia ha scelto Torino per attaccare il governo — e alla fine più Salvini che Di Maio e senza essere scortato da nessun altro leader industriale — qualche interrogativo sullo sviluppo recente delle dinamiche confindustriali lo ha suscitato.
Lo stesso Sole 24 Ore, infine, non è solo veicolo mediatico della vicenda, ma ne è parte. Come altri poli dell’editoria giornalistica nazionale il gruppo controllato da Confindustria è da tempo in crisi gestionale, tanto da aver dovuto ricorrere a lungo ad ammortizzatori sociali pubblici, senza tuttavia aver ancora imboccato con decisione il turnaround. L’aumento di capitale perfezionato l’anno scorso da parte di Confindustria e di alcune associate ha raggiunto la finalità essenziale di turare un deficit patrimoniale: non di gettare le basi di un rilancio, per il quale la Confindustria di Boccia ha per ora escluso ogni ipotesi di aggregazione. La prospettiva, del resto, appare problematica anzitutto sul piano delle relazioni interne al capitalismo finanziario e industriale italiano.
Tutti i potenziali partner domestici del Sole (da Rcs a Gedi, da Caltagirone a Mondadori, senza trascurare realtà come Tim e Mediaset) fanno infatti riferimento a grandi soggetti industriali o bancari al centro dei quali Confindustria si ritroverebbe pressoché paralizzata se dovesse scegliere. Ma il dossier Sole — per quanto delicato — forse non è il più importante nel “tempo delle scelte” per l’ultracentenario club degli industriali italiani.