La linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione rappresenta un potente collante di riflessione e mobilitazione politica. In poche settimane è andata in scena la duplice manifestazione che ha portato nella centrale Piazza Castello di Torino migliaia di persone prima con i Sì Tav e sabato scorso con i No Tav. Un confronto segnato da letture culturali assai diverse (direi quasi antropologicamente diverse), oltre che da opzioni politiche incompatibili. La realizzazione della Tav o il suo rifiuto vanno infatti molto al di là della valutazione tecnica costi-benefici: oggi la Torino-Lione costituisce una sfida strategica sia per chi la vuole sia per chi la contesta.
L’entrata in scena dei Sì Tav rilancia la Torino che rivendica il diritto a essere metropoli europea. Dalla marcia dei 40mila quadri della Fiat, che nel 1980 si opposero al braccio di ferro sindacati operai-Fiat, non si era più vista alcuna analoga manifestazione. La riscoperta della piazza da parte di quel settore della città tradizionalmente connotato da riservatezza e prudenza tutta torinese ha le sue radici nei troppi “no” di chi la sta governando: no Olimpiadi, no Tav, no a qualsiasi progetto espansivo.
Il neonato movimento Sì Tav ha così fatto della costruzione della linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione una questione ad alta intensità simbolica contro il declino dell’ex capitale e un ceto politico (M5s) non solo ritenuto incapace di reagire, ma volutamente complice, rinchiuso nel presente, legato a una visione rinunciataria del futuro. Nella narrazione pentastellata i bisogni del quotidiano contro quella che viene dipinta come “scriteriata crescita del passato” sarebbero non solo da anteporre agli investimenti per lo sviluppo, ma fatalmente e ineluttabilmente ad esso alternativi. Contro questa narrazione la decisione di opporre a voce alta e in piazza ai No altrettanti Sì.
Le ragioni dei No Tav sono mutate nel tempo. Tra l’inizio degli anni Novanta e oggi si è verificata la sostanziale trasformazione da movimento locale – il cui nucleo era inizialmente costituito dai rocciosi montanari valsusini – a movimento no global.
Alle origini la protesta rivendicava soprattutto la tutela (con il sostegno della sinistra tradizionale) della piccola proprietà e dell’integralità del territorio, già gravato da quattro pesanti servitù (la stretta Val di Susa è attraversata da autostrada, ferrovia tradizionale e due strade statali). A questa prima fase ha fatto seguito l’aggregazione al nucleo locale di un concentrato di gruppi rappresentativi di varie forme di protesta: centri sociali, anarchici, femministe, schegge della sinistra alternativa, che hanno ampliato gli orizzonti del movimento valligiano. L’ultimo approdo è l’ingresso di gran parte dei No Tav nella galassia della cosiddetta “decrescita felice” con un’alternativa radicale alle leggi dell’economia di mercato e al suo sistema di valori e l’innamoramento per il M5s, che ha fatto man bassa di voti in Valle (anche se adesso una quota di No Tav diffida del Movimento).
Bastano questi pochi cenni per cogliere la densità culturale, e non solo politica, dello scontro Sì Tav-No Tav. Da una parte, una prospettiva di sviluppo avanzato sul piano tecnologico e infrastrutturale centrato su più livelli: formazione, ricerca, occupazione. Dall’altra, il rifiuto del modello classico di sviluppo basato sulla crescita economica e la ricerca di una “società altra” e di una “umanità altra”, per ora l’una e l’altra prospettive più utopiche che reali.
Nel momento delle scelte, forse non lontane, sarà bene dare uno sguardo al passato, perché sulla decantata “decrescita felice” pesa un precedente tutto subalpino che sarebbe prudente non dimenticare. Agli inizi degli anni Settanta le forze di sinistra (allora in gran parte egemonizzate da un forte partito comunista) optarono, a fronte dell’aumento troppo rapido della popolazione residente in seguito all’immigrazione dal Sud, per spendere ogni risorsa per migliorare i servizi, i trasporti e gli aspetti ricreativi dei ceti popolari nella convinzione che si dovesse rendere Torino più “umana”. Drastica fu la rinuncia a ogni investimento strutturale sul futuro (la rinuncia alla metropolitana fu emblematico).
Il ceto dirigente di quegli anni non percepì con sufficiente chiarezza la svolta a cui era giunta l’ex capitale e la necessità di immaginare un destino nuovo e diverso da quello che aveva portato Torino, nel Novecento, a costituire il motore dell’industrializzazione italiana. Torino perse colpi su colpi, mentre la Fiat cominciava a “detorinesizzarsi”.
Ci vollero vent’anni perché s’invertisse il corso della storia cittadina e si tornasse a pensare a una città in termini di sviluppo con il transito da una connotazione operaia a una città dai tratti diversificati, che oggi attrae – è solo un esempio – 4 milioni di turisti all’anno, vanta due atenei di prim’ordine, veri capisaldi di una società della conoscenza e continua, anche senza il traino Fiat, a rappresentare un polo importante del mondo produttivo nazionale.
Perché tornare a ripetere un errore già pagato caro? Perché immaginare che lo sviluppo sia incompatibile con il rispetto dei bisogni essenziali? Perché negare ai giovani la speranza in un futuro con maggiori opportunità di lavoro? Perché immaginare un’utopica civiltà felice, chiudendo gli occhi di fronte alle opportunità reali della vita quotidiana?