C’è un momento preciso, nella lettura di Ghosts Upon The Road, il libro scritto da Paolo Vites e Roberto “Jacksie” Saetti sul cantautore Eric Andersen, in cui il lettore assiste alla trasformazione di un oggetto in soggetto. E’ l’istante, cioè, necessariamente diverso per ciascuno, in cui l’oggetto della narrazione diventa qualcosa che ha a che fare con chi la percorre, trasformandolo, appunto, in soggetto di quella trama.
Al sottoscritto è accaduto poco dopo l’inizio del libro, quando si racconta di un Andersen che, dalla California, culla del sogno beat, si trasferisce, all’inizio degli anni sessanta, nel Greenwich Village di New York, nel momento in cui la scena del folk revival è in piena fioritura, guidata da quel Bob Dylan che, nel suo Chronicles, la definirà, molto più tardi, come sorta di paradiso troppo perfetto per non essere destinato a finire. Per chi scrive, entrare nella narrazione di quei primi passi di Andersen nella Grande Mela, ha fatto riaffiorare la memoria di un giovane ragazzo, nato proprio all’inizio di quei sessanta e che negli anni settanta legge, seduto nell’angolo buio della sua cameretta, sulla poltrona del salotto vecchio che i genitori non hanno voluto buttar via, la biografia di Dylan scritta da Anthony Scaduto.
E’ inverno, fa freddo e quel ragazzo un po’ malinconico avrebbe tanta voglia di viaggiare. Attraversare i muri, scavalcare la finestra che si apre tra le pagine di quel libro e saltare sul carro della fantasia. Quel ragazzo sfoglia le pagine e cerca uno spiraglio dal quale possa passare tutto il suo desiderio di libertà. Manda a memoria ogni frase, entra nella mente dei personaggi, ne vede i pensieri, condivide la loro ferita. Bastano pochi istanti e la città, là sotto, si trasforma. Il suo quartiere è proprio quel Greenwich Village, il bar sotto casa diventa il Gerde’s Folk City e il Cafè Wha. E tra le strade, umide e nebbiose, si sente fuoriuscire la musica. Suoni di chitarra e voci forti, quelle di Dylan, di Tom Paxton, di Phil Ochs, di Ramblin’ Jack Elliott, e di quell’Eric Andersen, americano di origini norvegesi, che ha iniziato a trasferire nelle sue canzoni quel particolare senso di mestizia misto a speranza che, unito ad una splendida voce e ad uno spiccato senso della melodia, fanno delle sue composizioni qualcosa che non si fatica a definire poesia, specie al giorno d’oggi, dopo che il premio Nobel per la letteratura conferito a Bob Dylan, ha innalzato a dignità di forma d’arte anche la musica popolare.
Da quel momento in poi, la lettura di questo libro, è stato, per chi scrive, un affascinate piano inclinato, lungo il quale l’unico sforzo è stato quello di frenare la corsa, di tanto in tanto, per poter godere pienamente della bellezza del paesaggio lungo il viaggio. Perché questa è, sì, la storia di Eric Andersen, raccontata attraverso un’analisi straordinariamente dettagliata della sua produzione, ma è anche una cavalcata lungo la storia della musica che amiamo. Sotto la lente dell’avventura artistica ed umana di Andersen, si ripercorre così un cammino che, dopo la scena del folk revival, attraversa la rivoluzione musicale del 1968, la svolta cantautorale ed intimista dei primi anni settanta, i nuovi scenari punk di fine decennio, la new wave degli anni ottanta, fino a quegli anni novanta e duemila in cui l’epoca delle grandi novità sembra finire, ma la musica, quella vera, non cessa di essere incisa.
Proprio all’inizio di quegli anni novanta, sarà Andersen stesso, una carriera mai coronata fino in fondo dal successo che si sarebbe meritato, a dire di se stesso: “I’m just a folksinger”, quasi che questo termine, a distanza di anni, esprimesse qualcosa di umile e riduttivo. In verità, come si legge nel libro, “se siamo alla ricerca di canzoni che raccontino la realtà al di là delle manipolazioni dei media o dei politici, abbiamo bisogno di loro, dei folksinger, di una scrittura narrativa, emotiva, libera e, nel caso di Andersen, ancora una volta profondamente personale”.
Alcuni capitoli del libro riescono a scavare in profondità tutto questo. Accade soprattutto quando gli autori si cimentano nel racconto dei migliori dischi del nostro, come Blue River, Stages – il misterioso disco “perduto” – Ghosts Upon The Road, Memory Of The Future. Sono i momenti in cui ci si ritrova a ritirare fuori dallo scaffale quegli album per riascoltarli in modo nuovo, e capire meglio come mai quest’autore ci aveva sempre affascinato, facendoci innamorare di quella sua cifra artistica, fatta di “ballate romantiche e crepuscolari, tra visioni e realtà, sogni e delusioni, vita e poesia, nel solco della tradizione dei menestrelli e dei trovatori”.
Lungo la storia raccontata nel libro, c’è un altro filo narrativo affascinante ed è quello dello stretto rapporto tra Eric Andersen e il nostro paese, teatro non solo di numerosi concerti, ma anche di una prolungata frequentazione. E’ quello che connette direttamente a Carlo Carlini, cui Vites e Saetti dedicano il loro libro, indimenticato promotor musicale, che permise a noi italiani di venire a contatto con alcuni dei più grandi protagonisti della musica d’autore americana. E’ anche questo un aspetto che consente a questa storia, il racconto che si dipana lungo le pagine del libro, di trasformarsi da oggetto, come si diceva all’inizio in soggetto, qualcosa che ci riguarda, che c’entra con la nostra stessa esperienza di vita.
Se dovessi dare un consiglio, a chi si troverà tra le mani questo libro, suggerirei di fare come me: lasciare la lettura dei primi tre capitoli – “Pazzofiume”, scritto dallo stesso Andersen, “Be True To You”, di Paolo Vites, e “Quella giacca di Armani”, di Roberto “Jacksie” Saetti – alla fine. Perché solo dopo aver percorso tutta la storia di Andersen – una storia ancora in corso perché c’è un nuovo disco del nostro in cantiere – si può capire meglio l’anima di Eric e dei due autori che l’hanno scritta. Cosa sia scritto in quei capitoli lo lasceremo scoprire al lettore, così come nella recensione di un film non si racconta nei dettagli la trama o la scena finale, per non rovinarne le bellezza.
Ci sia consentito di dire solamente che anche quella lettura saprà far diventare ancor più soggetto la nostra presenza dentro questa storia. Una vicenda fatta di canzoni capaci di “tenerci al sicuro dal buio più profondo”, e colme del “contenuto emotivo uguale a quando un buon amico ti sussurra delle storie all’orecchio in un bar a notte fonda”. Una storia che ci dice che di buoni amici, lungo il cammino della nostra strada, abbiamo sempre bisogno. Amici che, alla fine, ci possano dire, come nel titolo di una delle canzoni di Eric – Be True To You – che c’è un’esigenza di sincerità, di verità e di bellezza in ogni storia, più forte di ogni altra cosa. E che non può mai venire meno nella nostra vita.
(il libro è disponibile via mail order agli indirizzi [email protected] o [email protected]; in libreria solo da Carù dischi e libri, Gallarate, Piazza Garibaldi)