Nei giorni scorsi in Germania il Governo ha approvato una legge sull’immigrazione che favorisce l’ingresso di lavoratori extraeuropei. La ragione è la carenza di manodopera che affligge l’industria tedesca e che ha assunto proporzioni tali da indurre l’esecutivo di Angela Merkel a prendere una decisione complicata. Il ministro dell’Economia, Peter Altmaier, ha dichiarato che così si va “incontro alle chiare esigenze rappresentate dalle principali associazioni economiche del Paese e diamo una prospettiva chiara alle imprese sperando che mantengano gli investimenti”. La legge incentiva l’arrivo di manodopera non qualificata per aiutare le imprese tedesche, ma allo stesso tempo solleva una questione “politica” perché l’arrivo degli immigrati poi, nelle urne, si traduce in una vittoria dei populisti anche solo per il fatto che le fasce più deboli della popolazione vedono un’opportunità persa di migliorare le proprie condizioni di lavoro.
Si discute con tranquillità di queste novità senza accorgersi di cosa questo significhi per l’Unione europea e l’euro. Infatti, la Germania che importa manodopera a basso costo sfidando i prevedibili risvolti elettorali condivide unione e moneta con economie con la disoccupazione al 10% (Italia e Francia) e altre al 20% e passa. L’opinione comune è questa: non possiamo far pagare ai tedeschi la loro bravura. È la stessa profonda convinzione dell’elettore tedesco che trova l’ennesima conferma alla tesi delle cicale italiane, francesi o greche e della povera formica tedesca che paga il conto per tutti. È lo stesso elettore che poi, per esempio in Germania dell’est, vota populismi che fanno molta più paura dei nostri.
Questa tesi andrebbe bene se la Germania avesse il marco. Invece oggi è la prova provata dell’impazzimento europeo e della malafede di chi difende questo stato delle cose. L’Unione europea si è dotata di alcune regole che produrrebbero uno sviluppo armonico di tutta l’Unione. Alcune regole vogliono impedire che certe economie si indebitino facendo pagare il conto alle altre; altre regole, non certamente meno importanti, vogliono impedire esattamente quello che accade sotto i nostri occhi e cioè che certe economie competano con un cambio svalutato senza pagare il conto o senza meccanismi di aggiustamento. Queste sono le regole che impediscono che i surplus commerciali all’interno dell’Unione superino certe soglie, che la Germania viola da anni senza che nessuno dica niente. Eppure sono violazioni “disruptive” e distruttive per l’Unione almeno come quelle riguardanti il primo tipo di regole.
La Germania per ridurre il suo surplus commerciale potrebbe fare diverse cose. Per esempio, alzare i salari dei suoi lavoratori che così comprano più maglioni italiani o vini francesi. Per esempio aprire fabbriche della Mercedes in Calabria o in Grecia o rifare le proprie autostrade con manodopera qualificata portoghese o italiana. In tutti questi casi la disoccupazione converge perché la ricchezza si redistribuisce in tutta l’unione monetaria. È quello che avviene in qualunque altro Stato del globo per cui i soldi fatti a New York o a Palo alto si riverseranno con mille rivoli nel resto degli Stati Uniti. Stesso discorso per le provincie cinesi o russe.
Oggi invece assistiamo al paradosso di una Germania che “importa” manodopera qualificata da fuori Europa con la Grecia al 25% di disoccupazione. In più in questo modo mandiamo in Parlamento partiti che faremmo volentieri a meno di avere. Ora, la domanda minima ce ci dovremmo fare è se qualcuno crede ancora o abbia mai creduto al progetto e se no, se non ci crede davvero nessuno, perché altri siano “costretti” a crederci. La seconda domanda è quale sia l’evoluzione di dinamiche che sono oggettivamente distruttive e che aprono enormi interrogativi sui rapporti tra gli Stati dentro l’unione con stati di serie B, ricordiamoci le proposte di Oettinger di tenere a mezz’asta le bandiere degli stati indebitati, e stati di serie A, quando in realtà queste distinzioni si producono per un’asimmetria nella richiesta di rispetto dei parametri europei.
In tutto questo la domanda finale è chi sia veramente populista e chi europeista. Perché è chiaro che a queste condizioni i populismi sono destinati a prendere forza e il progetto europeo a ridursi a un impero con colonie. È altrettanto chiaro che per mantenere l’ordine e sopprimere i disordini generati da questi squilibri serviranno alla fine manganellate più decise. È davvero questo il modello che vogliamo difendere in modo spesso così acritico e ideologico?