Il maxi emendamento sulla “manovra” ha ormai delineato l’impianto della Legge di bilancio, nell’ambito della quale una misura simbolo è costituito certamente dal taglio delle “pensioni d’oro”, da effettuarsi, come è noto, con un “contributo di solidarietà”, incidente dal 15% al 40%, per la durata di cinque anni, su successivi scaglioni di reddito. Gli organi costituzionali e di rilevanza costituzionale sono invitati ad adeguarsi, nell’ambito della loro autonomia, a tale misura.
I risparmi così conseguiti vanno su appositi Fondi presso l’Inps e “restano accantonati”. Le decurtazioni non si applicano alle pensioni interamente liquidate con il sistema contributivo, agli assegni di invalidità, di reversibilità e a quelli di vittime del dovere e del terrorismo. La legge verrà certamente approvata in pochi giorni, a seguito di un dibattito “essenziale” e veloce, per consentire il tempestivo esercizio finanziario dello Stato.
Pur essendo quindi una vicenda sostanzialmente chiusa, può essere utile, per il suo carattere esemplare, una breve riflessione a “futura memoria”. Va detto subito che il “taglio” delle pensioni d’oro e il contestuale “blocco” dell’adeguamento all’inflazione delle pensioni, previsto dal medesimo emendamento per una platea ben più ampia – a partire dalla pensioni complessivamente superiori a tre volte il trattamento minimo Inps (circa 1.500 euro) – costituiscono un tradizionale strumento “bipartisan”, soprattutto in momenti di criticità politica ed economica. Basti pensare che il primo analogo intervento risale addirittura all’art. 37 della legge 23 dicembre 1999 n. 448. Poi altri sono seguiti fino all’ultimo del Governo Letta, che ha avuto il via libera anche dalla Corte Costituzionale. Tali interventi sono stati sempre realizzati, per periodi definiti, senza suscitare particolari tensioni, al di là del fisiologico e legittimo contenzioso, che ha avuto peraltro esiti alterni.
L’elemento di novità è invece oggi il prevalere, sulle esigenze, pur legittime, di contenimento della spesa pensionistica e di solidarietà intergenerazionale, di dichiarazioni “muscolari” e “punitive” – colpire la casta, abolire i privilegi – peraltro del tutto gratuite, che accendono, senza evidenti necessità, reazioni corrispondenti, con un discutibile impatto sulla coesione sociale e istituzionale. Ciò, pur avendo ben chiara la “cifra” di alcuni esponenti di questo Governo che privilegiano l’iperbole come figura retorica.
In realtà le cosiddette “pensioni d’oro” sono state a suo tempo liquidate sulla base di leggi all’epoca vigenti – approvate dal Parlamento e non certo dai singoli “pensionati d’oro” – con i medesimi criteri utilizzati per tutti gli altri pensionati pubblici della stessa epoca e cioè senza applicare nessuna norma “speciale” che possa configurarsi come “privilegio”. A essere precisi, anzi, con il metodo retributivo esisteva un meccanismo di “raffreddamento” della progressività della pensione da liquidare rispetto ai contributi versati (aliquota percentuale di rendimento), che andava dal 2% allo 0,90%, secondo l’importo crescente dei contributi, sicché le pensioni pubbliche più alte risultano tendenzialmente più congrue, rispetto ai contributi versati, di quelle meno consistenti – non tagliate – che sono state liquidate con i medesimi criteri e nella medesima epoca.
Ciò, tra l’altro, rende discutibile, sul piano della parità di trattamento, la scelta dell’emendamento di escludere dal contributo di solidarietà le “pensioni liquidate con il metodo contributivo”, dando per scontato che tutti i beneficiari delle pensioni liquidate con il metodo retributivo, depurate dei meccanismi di “raffreddamento”, non abbiano versati i contributi necessari (si pensi ad esempio ai magistrati collocati a riposo a 72 anni, con una carriera lunga e stabile e stipendi consistenti). Per di più questa “presunzione” normativa non consente l’eventuale prova contraria per la dichiarata impossibilità dell’Amministrazione di calcolare i contributi prima del 1995 (riforma Dini), epoca sino alla quale la pensione dei dipendenti pubblici era considerata come “salario differito”.
Si ha l’impressione quindi che la soluzione proposta sia in effetti un ibrido. Da un lato emerge un atteggiamento “punitivo”, orientato a “tagliare” retroattivamente le pensioni d’oro liquidate, in tutto o in parte, con il metodo retributivo, sul presupposto della loro “ingiustizia”. Dall’altro, nella consapevolezza della legittimità delle pensioni e della criticità costituzionale della retroattività, rispetto al principio di affidamento, nonché dell’impossibilità di calcolare puntualmente i contributi versati da ciascun pensionato antecedentemente alla riforma Dini, ci si orienta verso il tradizionale “contributo di solidarietà” che però, a rigore, non essendo una sanzione, dovrebbe essere coerentemente applicato a tutte le pensioni, con qualunque metodo liquidate, e dovrebbe avere le caratteristiche che di seguito indicheremo, ben diverse da quelle di un meccanico e definitivo recupero retroattivo di un “ingiusto guadagno”.
Va poi sottolineato che la motivazione del contributo di solidarietà, in funzione di un migliore equilibrio intergenerazionale, appare di fatto tradita dalla norma, perché destinatari delle risorse derivanti dal taglio delle pensioni d’oro non risultano i giovani futuri beneficiari delle pensioni più basse o i fruitori del reddito di cittadinanza, ma, nella “narrazione” del Governo, gli attuali beneficiari degli assegni sociali, cioè di chi, pur coetaneo del pensionato d’oro, non ha pagato i contributi (magari anche in parte per evasione fiscale). In realtà poi, leggendo il testo dell’emendamento, si scopre che le economie così realizzate confluiranno solo in appositi Fondi presso l’Inps dove resteranno “accantonate”, rendendo per lo meno opaca la loro destinazione finale.
Più propriamente le situazioni di disagio economico e sociale – che giustamente vanno affrontate con urgenza – andrebbero ricondotte invece alle politiche dell’assistenza e non della previdenza, da finanziare con le risorse della fiscalità generale, peraltro ben più consistenti – e soprattutto più strutturali – delle possibili modeste risorse ricavabili con il contributo di solidarietà, oltretutto fisiologicamente “a esaurimento”.
Infine un’ultima considerazione sulla soluzione adottata dall’emendamento in esame, che, come si è rilevato, si inserisce nella già sperimentata linea del contributo di solidarietà, ritenuto legittimo dalla Corte Costituzionale dopo alcune diverse precedenti pronunce (sentenze n. 223 del 2012 e n. 116 del 2013). Tali suindicate sentenze avevano infatti in un primo tempo annullato analoghe disposizioni legislative per la natura definitiva della decurtazione patrimoniale, configurantesi come prelievo tributario, discriminatorio ai danni di una sola categoria di cittadini. Successivamente la sentenza n. 173 del 2016, con la quale appunto è stato invece dichiarato legittimo il contributo di solidarietà previsto dal Governo Letta (comma 486 dell’art. 1 della legge n. 147 del 2013), ha stabilito la natura non tributaria del prelievo, introducendo il diverso criterio di un intervento di solidarietà, tutto interno al sistema pensionistico (lo si sottolinea per le implicazioni sui beneficiari delle economie).
Tuttavia la Corte Costituzionale ha affermato che, comunque, questo contributo di solidarietà – di carattere eccezionale – nel garantire il bilanciamento tra il legittimo affidamento dei pensionati con altri valori di solidarietà, deve rispondere a criteri di ragionevolezza, sostenibilità, proporzionalità e temporaneità. In sede di eventuale contenzioso Costituzionale, la Corte dovrà quindi valutare, ad esempio, se la durata quinquennale della misura – riferita prevalentemente a persone ultrasettantenni -, i presupposti economici della manovra complessiva di Bilancio (di natura espansiva) e la consistenza dei “tagli” previsti (fino al 40%), siano congrui rispetto ai predetti criteri.
Quanto poi, infine, al blocco dell’adeguamento all’inflazione delle pensioni sopra i 1.500 euro, anch’esso contenuto nella manovra, va ricordato che un analogo precedente, previsto dall’art. 1 della legge 21 maggio 2015 n. 65, ha trovato conferma in una recente sentenza della Corte Costituzionale – la n. 250 del 2017 – che ha riconosciuto la legittimità costituzionale del sacrificio dell’interesse dei titolari di pensioni di importo più elevato – e quindi con “maggiori margini di resistenza all’erosione del potere di acquisto causato dall’inflazione” – purché però si tratti di un intervento temporaneo e “accuratamente motivato”, in base al “principio di ragionevolezza” e risulti “comunque salvaguardata la garanzia di un reddito che non comprima le esigenze di vita cui era precedentemente commisurata la prestazione previdenziale”.
In conclusione, per quanto sopra rilevato, non è da escludere che l’ultima stesura di questo punto della Legge di bilancio sia riscritta dalla Corte Costituzionale.