Sì, lo so bene: domani è Natale ed io devo scrivere il pezzo sul pranzo. Il pranzo di Natale. Poi ci sarà quello di Capodanno ed io già immagino il servizio del telegiornale che farà vedere paste al forno, salumi grondanti di grasso e altre immagini che spero siano di repertorio perché a me appaiono alquanto anacronistiche. Io il pezzo sul pranzo di Natale non lo voglio scrivere! Perché il pranzo di Natale, com’è ancora concepito nell’immaginario collettivo (si dice così?) è una “boiata pazzesca”.
Mi perdonerete se siete di un’altra scuola di pensiero, oppure anche no, ma del pranzo di Natale non sopporto decisamente tre cose. La prima che ci sia una vittima sacrificale, solitamente una donna, che deve stare in cucina per fare uscire quell’assurda sequenza di piatti: antipasti, primi e secondi (tutti al plurale) fino ai dolci. Lei lavora in ossequio a un’ostentazione, suo malgrado, dov’è centrale la quantità, che andava bene nel Dopoguerra, oggi forse meno. La seconda faccenda insopportabile è l’obbligo di stare a tavola per tanto tempo. E magari ti trovi in uno di quei pranzi obbligati, con gente (parenti acquisiti o altro) che per formalità vedi solo una volta l’anno: quella appunto. La terza cosa insopportabile è l’obbligo che si infonde a qualche commensale di fare outing delle proprie patologie: “Scusate sono diabetico”; “Sono celiaco”; “Sono a dieta”, eccetera…
Ma perché? Non doveva essere un pranzo e un luogo dove tutti erano a proprio agio?
Allora siamo ancora in tempo per portare una sana rivoluzione al pranzo di Pantagruel, che non è proprio quello della capanna di Betlemme.
Prima cosa. Immaginare il menu alla francese (tutte le portate sul tavolo), e mandare in soffitta il nostro menu (detto alla russa). E qui ci saranno le tartine al salmone (ok!), i flan di prosciutto cotto per i bambini (gli affettati misti, anche no), l’insalata di cappone col melograno, un salume ma veramente speciale, sennò non vale la pena (io propendo per una coppa piacentina), un pane veramente buono, i grissini e tutta la fantasia che vi aggrada. E poi cinque tipi di insalate di stagione, ma anche un’insalata russa di pesce (bell’idea eh?) e della carne cruda di fassone piemontese battuta al coltello (o è troppo inflazionata, perché ormai la servono anche i catering di terzo livello?).
Bene, a questo punto si inserisce il piatto di Natale, che invece arriva fumante: uno solo. Decidete voi. O i tortellini, i ravioli, i tortelli di zucca della tradizione, da servire in abbondanza (e che ognuno si serva come crede) oppure un secondo natalizio: il cappone ripieno, la faraona, l’arrosto. Guai a dimenticare la verza, servita con un sughetto di acciughe sciolte. Si chiude col panettone.
Risultato? La vittima sacrificale è riuscita ad organizzarsi comodamente per tempo, ed è stata più tempo con gli ospiti. A tavola (e pazienza se si è seduto il solito zio rompiballe degli altri anni) saremo stati il giusto, senza relegare i bambini altrove. E col tempo recuperato qualcuno avrà pensato a una cosa fantastica, che il papà di don Giussani faceva: portava la musica in casa, perché pagava dei musicanti per evocare qualcosa di bello. Il suono di una musica è diverso dal suono delle mandibole, no? Si ascolta una musica, oppure una poesia. E poi si gioca, si canta, perché nei nostri pranzi gourmet manca proprio la gioia, ossia quell’antico ringraziamento che era il canto. E lo stiamo perdendo. Alla fine avremo vissuto un momento memorabile. E questo era l’obbiettivo: fare memoria della compagnia fra di noi che è come quella che Dio ha portato nel mondo attraverso suo Figlio.
Ah, dimenticavo i vini (ma sto rimbambendo?). Quanti vini? Per iniziare ci vuole una bollicina. E se devo dare un consiglio che nessuno seguirà, comprate un Lessini Durello brut, che è la tipologia italiana che più si avvicina agli Champagne. Poi basta: un vino bianco, perché c’è solo chi predilige il bianco. E qui sbizzarritevi. Io sceglierei un grande Verdicchio dei Castelli di Jesi o di Matelica. E un solo rosso. Ed io sceglierei un Barolo (o un Barbaresco, un Brunello di Montalcino, un Amarone, un Aglianico del Vulture, un Montepulciano d’Abruzzo). Personalmente berrò la Barbera d’Asti Il Bricco dell’Uccellone di Giacomo Bologna, che ci lasciò nel Natale del 1990. Comunque un grande rosso italiano, ma da aprire subito, non alla fine quando si è obnubilati e non si è in grado di rendere omaggio al miracolo dei nostri grandi vini. Sul panettone aprite un fragrante Moscato d’Asti. E sarà festa.
P.s. Questo articolo l’ho scritto oggi, 23 dicembre 2018, ma forse sarà attuale nel 2023. Mi sono portato avanti. Buon Natale!