Ottant’anni fa, il 27 dicembre 1938, in un lager dell’Estremo oriente moriva uno dei più grandi poeti russi del Novecento, Osip Mandel’štam. I suoi caustici versi su Stalin, ma più ancora la sua sete di “aria rubata”, come definiva la poesia “non autorizzata”, ovvero la parola libera, autentica, gli erano valsi 5 anni di lager che scontò solo in piccola parte, inghiottito ben presto dagli ingranaggi del “tritacarne”. I racconti dei sopravvissuti parlano di un uomo ridotto all’ombra di se stesso, in preda alla follia, che preferiva la fame piuttosto che accettare la razione statale perché ossessionato dall’idea di essere avvelenato, e in cambio di un boccone di pane si offriva di recitare ai suoi compagni i propri versi, venendone in genere respinto e deriso…
Ebreo per nazionalità, russo per la lingua, nessuno come Mandel’štam ha vissuto e respirato la “nostalgia della cultura mondiale” (per usare una sua espressione ormai divenuta celebre), e in primo luogo europea: “La via d’uscita dalla disgregazione nazionale… verso l’unità universale passa… attraverso la rinascita della coscienza europea, attraverso il recupero dell’europeismo come nostra grande appartenenza nazionale”.
Questa patria d’elezione europea si identifica per il poeta con la cultura cristiana, che introduce il tema della storia e della libertà personale in un universo immoto, di una bellezza gelida, senza vita. E proprio ai versi sul Natale Mandel’štam affida questo messaggio: “O mia profetica tristezza, / o mia sommessa libertà / e del firmamento senza vita / la perenne risata di cristallo”. L’uomo non può accontentarsi di questo meccanico, per quanto armonioso, tintinnio, è fatto per vibrare, per ardere – anche se questo comporta dolore e fatica – come “d’oro zecchino ardono / nei boschi gli alberi di Natale, / e tra i cespugli lupi-giocattolo / guardano con occhi spaventosi”.
Il valore esistenziale attribuito da Mandel’štam alla sua poesia spiega anche il suo atteggiamento nei confronti della propria opera. Alla preoccupazione della moglie Nadežda che le sue opere andassero perdute (lei stessa le avrebbe custodite, mandandole a memoria e serbandole nella sua memoria per anni, finché non fu possibile affidarle alla carta), rispondeva: “Le serberà la gente… Resteranno in eredità a chi le avrà serbate”. “E se non le serberanno?”. “Se non le serberanno, vuol dire che non servono a nessuno e non valgono nulla…”.
Come ha scritto la curatrice di una mostra recentemente inauguratasi a Mosca per ricordarlo, “per lui i versi e l’archivio non erano un bene che si possa lasciare in eredità, ma piuttosto un messaggio gettato in una bottiglia tra i flutti dell’oceano: apparterrà a chi l’avrà raccolto sulla riva”.
Nel frattempo i versi di Mandel’štam sono stati tradotti e pubblicati in numerose lingue, su di lui sono stati scritti centinaia di libri, le ricerche sulla sua poetica si contano a migliaia… Si sono così realizzate le parole con cui il poeta aveva segnato la sorte della sua opera – evidentemente di vitale importanza per tanti – ma anche il suo testamento spirituale, ancora una volta intrecciato con il mistero del Natale:
Custodisci la mia parola per sempre per il sapore di sventura e di fumo
Per la resina di un’infinita pazienza, per l’onesto catrame del lavoro…
Come a Novgorod l’acqua nei pozzi dev’esser nera e docile,
perché a Natale vi si specchi la stella a sette pinne…