Un passo indietro per capire come siamo arrivati ad approvare la manovra. Quando la legge di bilancio è stata presentata, con un deficit al 2,4 per cento del Pil e provvedimenti scassaconti in aperta sfida con Bruxelles, il commissario Ue Moscovici aveva detto che il governo italiano era composto da “venditori di tappeti”. Cioè da gente che chiede 10 per avere 5. Altri si chiedevano se l’Italia avesse pronto un “piano B”, tipo un modo per lasciare l’euro. Conte, Di Maio e Salvini avevano replicato che non c’era né il piano B né eravamo mercanti arabi, e che la manovra restava quella varata. È finita come aveva pronosticato Moscovici, cioè un braccio di ferro estenuante dal quale nessuno può dire di essere uscito vincitore.
Ma come esce veramente il governo Conte da questo negoziato? Valeva davvero la pena tirare la corda fino al punto di arrivare a votare la legge di bilancio sul filo di lana, votando la fiducia a scatola chiusa, e con un testo che deve essere immediatamente riscritto, almeno in parte, e integrato?
Dipende dagli obiettivi che si era posto l’esecutivo gialloverde. Se voleva dare al Paese una manovra organica, coerente, di sviluppo, che chiarisse la direzione di marcia dei prossimi mesi, il traguardo è stato fallito. I provvedimenti chiave, cioè il reddito di cittadinanza e la riforma della legge Fornero, sono ancora da scrivere: la manovra registra che ci sono fondi a disposizione, nulla di più. Dopo l’Epifania bisognerà anche correggere le parti sulla tassazione alle realtà no profit. Dall’esame a freddo del maxiemendamento stanno emergendo una quantità di scappatoie (come per la flat tax alle partite Iva), mance, sprechi, che non differenziano troppo questa manovra da tante altre finanziarie della prima e seconda Repubblica. E sul futuro viene gettata una pesantissima ipoteca, rappresentata dall’aumento dell’Iva se i vincoli di bilancio e di crescita posti dalla legge di bilancio non saranno rispettati.
Diverso è il discorso se l’obiettivo del governo era usare questo passaggio come una formidabile arma preelettorale in vista delle europee, e sulla pelle del Paese. Da questo punto di vista il governo ha vinto. La colpa di ogni sgangheratezza viene scaricata su Bruxelles. Le tensioni interne sembrano superate senza dimissioni di nessuno né rimpasti dei ministri meno performanti. La lettera di richiamo è stata stracciata. Il Quirinale ha benedetto l’operazione pur di evitare l’esercizio provvisorio e la procedura di infrazione. Davide non ha ammazzato Golia ma l’ha costretto a venire a patti, e questo è già un mezzo successo, anche con una manovra pasticciata.
Ora la road map del governo prevede un’intensificazione della campagna elettorale fino a fine maggio, quando il voto delle europee dirà se il fronte populista sarà stato in grado di sfondare in altri Paesi o rimane confinato, e quali saranno i nuovi equilibri nell’alleanza gialloverde. Nel frattempo, però, al governo verrà meno un argomento chiave: la tirannia di Bruxelles. Nei prossimi mesi nessuno potrà sostituirsi ai nostri ministri nella scrittura delle leggi sul reddito di cittadinanza e la quota 100. Inoltre, si vedranno i primi effetti della manovra: se porteranno recessione oppure la crescita promessa dal governo. Ora il governo non ha più scuse. E il risultato delle europee potrebbe non essere quel plebiscito che Di Maio, e soprattutto Salvini, oggi si attendono.