Sulla maggioranza delle autostrade italiane il 2019 è iniziato senza aumenti dei pedaggi. I rincari sono sospesi mentre continuano le discussioni tra Governo e concessionari; le discussioni continuano perché i concessionari ritengono di avere valide rivendicazioni dato che nel sistema attuale l’aumento dei pedaggi è il principale fattore con cui si remunerano gli investimenti. La questione dei pedaggi autostradali e più in generale del sistema adottato in Italia per gestire le autostrade eccede di molto l’appuntamento giornalistico con i rincari. È una questione di politica industriale nel più ampio senso del termine, perché da un lato, come Stato, ci si deve assicurare che non manchino risorse per investimenti siano essi relativi a manutenzioni o ampiamenti o infine nuove tratte; da un altro lato, ci si deve assicurare che la remunerazione degli investimenti non si traduca in tariffe insostenibili per il pubblico sottraendo di fatti interi pezzi di viabilità a una fetta importante di cittadini.
In alcune zone d’Italia gli incrementi cumulati degli ultimi 15 anni hanno creato situazioni che dal punto di vista dell’interesse generale o di politica industriale non sono auspicabili: il traffico si riversa sulla viabilità ordinaria, con tutte le conseguenze ambientali e di perdita di tempo, semplicemente perché l’autostrada è troppo cara; oppure spostarsi, per esempio per turismo interno, diventa complicato per i costi dei pedaggi con un effetto perverso per cui per garantire certe remunerazioni a una controparte si penalizza chiunque benefici per il turismo.
Quanto successo negli ultimi 15 anni in termine di differenza tra evoluzione del reddito medio ed evoluzione delle tariffe autostradali dimostra che c’è qualcosa di profondamento sbagliato negli schemi approvati dai governi italiani e più in generale in tutta la normativa. Il problema è lungo e complesso, ma si possono comunque individuare dei difetti di costruzione. Il primo, abbastanza chiaro per esempio negli schemi di concessione di Autostrade per l’Italia, è un contratto troppo favorevole al concessionario; nella fretta di privatizzare e di garantire oltre ogni dubbio un certo rendimento si sono inserite clausole che sembrano quasi sollevare il concessionario da ogni responsabilità.
Si pensi al fatto che la parola “sicurezza” non viene mai nominata oppure alla “pena massima” che consisterebbe nella corresponsione di tutti i ricavi futuri previsti dal contratto. Una pena massima che nella sostanza è una non pena. Il periodo delle privatizzazioni ha partorito anche questo e la beffa è che i ricavi delle privatizzazioni sono stati anche molto modesti, soprattutto alla luce delle redditività mostruose, come nel caso delle concessioni autostradali, dei beni privatizzati.
Gli schemi di concessione sono molto rigidi e hanno determinato delle vere e proprio distorsioni degli obiettivi originari quando, come accaduto negli ultimi 15 anni in almeno in tre frangenti, le condizioni economiche, l’evoluzione del Pil o l’inflazione, o finanziarie, l’evoluzione dei tassi di interesse, si sono mosse su binari che nessuno aveva previsto come conseguenza di veri e propri shock economico-finanziari. Il risultato è quello a cui assistiamo da diversi anni: tariffe “impazzite” rispetto alla situazione economica di una larghissima fetta di popolazione, al punto che le autostrade diventano un lusso, difficoltà a finanziare investimenti che renderebbero questo “impazzimento” ancora più problematico e concessionari che macinano utili a livelli impensabili, nonostante gravi fasi di rallentamento economico, al punto che si “avventurano” in opa per cassa per decine di miliardi di euro, Atlantia, o centinaia di milioni, Sias, su reti autostradali o concessioni estere. Un caso di “salute finanziaria” e redditività di concessionari nazionali che non ha alcun paragone in Europa.
È abbastanza evidente che serva un ripensamento generale e profondo di tutto il settore e che, inevitabilmente, assisteremo a frizioni anche molto ruvide tra Governo e concessionari.