Le sanguinose dittature del Novecento non nascono da sole, non sono la conseguenza di un rapido colpo di mano che distrugge una situazione idilliaca. Spesso gli umori che le legittimano avvelenano un clima sociale per decenni e decenni. Il potere viene occupato, se del caso militarmente, dal primo che interviene a sbrogliare la matassa, o a promettere di farlo.
La Germania nazista è un esempio molto efficace di come le instabilità politiche possano progressivamente tradursi in forme autoritarie e assolutistiche. Hitler e il partito nazionalsocialista non nascono nell’atto di prendere il potere: i nazisti occupano la scena dopo decenni di dissoluzione dello Stato e ottengono il consenso perché si dimostrano forti e credibili nel pretendere di fronteggiarla. Vedere cosa succede negli anni Dieci e Venti del XX secolo permette di capire cosa succede immediatamente dopo: una consecutio logica spesso negata ai contemporanei e ancor più spesso ignorata dai posteri.
La prima guerra mondiale ha smembrato l’impero tedesco. Per mantenere in piedi il sistema, in politica interna, è necessario rivitalizzare le istituzioni liberali dell’Ottocento, con le istanze sociali che muovono masse crescenti e, conseguentemente, crescenti disordini e agitazioni. La Repubblica di Weimar – la forma istituzionale assunta dalla Germania tra il 1919 e il 1933 – tenta di tradurre sul piano giuridico le sostanziali problematiche del tempo. Come vedremo, il suo atto fondativo (la repressione delle ribellioni interne) contiene già il suo drammatico epitaffio.
Per certi versi, la costituzione di Weimar è in anticipo sui tempi: dosa garanzie parlamentari e meccanismi di tutela giurisdizionale; introduce una declinazione sociale delle libertà civili e politiche liberali; realizza un compromesso tra partiti, gruppi e valori diversi. Per altri aspetti, la Repubblica di Weimar è molto indietro rispetto alla realtà che deve organizzare e regolamentare: cerca di dare forma e sostanza a un magma indecifrabile, dove si assommano nazionalismi, crisi economica, rimpianto di sconfitte militari, privilegi perduti e diritti mai conseguiti.
La sinistra social-democratica non ha accettato unanimemente la svolta riformista, compromissoria e moderata. I socialisti si sono divisi in tutto il continente (perdendo in molti casi la possibilità di vincere le elezioni e governare) tra gli interventisti e i non interventisti. Questa tensione è stata impattante quasi quanto quella che si palesava già a fine Ottocento, tra i massimalisti rivoluzionari e i riformatori non ostili al compromesso liberal-borghese.
Tra i rivoluzionari, non tutti sono personalità d’azione, agitatori in grado di muovere milizie. Spesso è vero il contrario: chi ha le armi si mette al servizio di interessi reazionari, difensivistici, corporativi. E le correnti radicali, oggi come cento anni fa, possono avere dalla propria le menti migliori, le ricostruzioni sociologiche più intransigenti (Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg), ma spesso non riescono a prevedere le reazioni che innescano.
Cento anni fa, la rivolta nasceva dal legittimo malcontento della parte più avanzata dei social-democratici. Vedevano i loro sostenitori traditi dalle politiche moderate adottate per fronteggiare i tempi di crisi. Gli effetti dei tanti equilibrismi parlamentari si traducevano nell’immediato in politiche aspramente antioperaie. La guerra era stata l’affare voluto da pochi e dal quale tutti erano usciti con le ossa rotte, alcuni intenzionati soltanto a tornare presto e bene alle proprie posizioni originarie.
Rosa Luxemburg scriveva accorata: “o socialismo o barbarie”, perché le politiche antisociali stavano effettivamente portando la Germania nel baratro e la Costituzione di Weimar era stata una soluzione istituzionale qualitativamente valida, ma nei fatti non troppo incisiva. Karl Liebknecht rilanciava: “il nemico è dentro casa nostra” (riferendosi sia al Paese, sia ai partiti). Intellettuali e radicali si erano uniti nel nome di Spartaco, lo schiavo combattente che perse rovinosamente e con la vita una battaglia impari contro la potenza romana imperiale. Gli insorti di Berlino del 4 gennaio vennero malamente spazzati via dal governo della Repubblica. Gli stessi politici che avevano votato una costituzione avanzata e di garanzia diedero poi comodamente agio alle milizie volontarie dei corpi franchi della destra nazionalista. Sedare gli insorti male organizzati, ma ormai fuori controllo, era molto più importante che difendere le libertà politiche pur costituzionalmente scolpite.
Del bagno di sangue, un secolo dopo, sembra essere rimasto poco e le sinistre spesso, alla presa del potere in coalizione con altri partiti, si dilaniano tra pretese di incontri e accordi a tutti i costi e con comodo guadagno e frange, ora coraggiose ora scellerate, che si oppongono con forza ma senza costruire alternative. Questa divisione, però, dal 1919 ad oggi sembra essersi fatta carne della sinistra tutta: vince alleandosi ma diventa succube dell’alleanza; contrasta una deriva, ma quella stessa attività di contrasto rischia di condurre a una deriva ben più tragica. La sinistra è perciò l’anima inquieta che deve liberare e crearsi gli spazi tra e contro il tradimento degli ideali di alcuni suoi dirigenti e l’eterna caricatura di ortodossia di molti altri.