Il diavolo è nei dettagli. Gli effetti delle decisioni di politica economica dipendono in generale dai dettagli della loro implementazione più che non dalle generiche dichiarazioni di intenti. E la nuova riforma delle pensioni, con l’introduzione della “quota 100”, la cui predisposizione è stata rinviata a un decreto del nuovo anno, non farà eccezione. Il provvedimento allo studio dovrebbe infatti consentire l’accesso anticipato alla pensione per chi lo desidera, ma al costo di subire una penalizzazione sull’assegno ricevuto. Il suo effetto dipenderà essenzialmente dall’entità di tale penalizzazione.
Se varrà l’equità attuariale, cioè se ci sarà corrispondenza fra i versamenti durante la vita lavorativa e le prestazioni pensionistiche attese (calcolate secondo le stime sull’aspettativa di vita media elaborate dall’Istat), l’anticipo della pensione sarebbe una misura sostanzialmente neutra dal punto di vista del bilancio pubblico. Essa offrirebbe agli individui un maggior grado di flessibilità, permettendo, a chi lo desidera, di andare in pensione prima. Preservare l’equità attuariale, tuttavia, comporterebbe una riduzione significativa dell’entità dell’assegno mensile. Sia perché, riducendosi gli anni di lavoro, diminuisce anche l’ammontare complessivo di contributi versati. Sia perché, anticipando l’uscita, aumentano gli anni in cui si gode del trattamento pensionistico.
In questo contesto, il pensionamento anticipato non ha conseguenze di lungo periodo sul bilancio pubblico. Le conseguenze negative sul deficit nel breve termine, legate al mancato versamento dei contributi e alle maggiori erogazioni pensionistiche per chi sceglie di avvalersi dell’anticipo, sarebbero bilanciate dal minore deficit per i minori esborsi negli anni successivi. Si tratterebbe, quindi, di una misura per struttura non lontana dall’anticipo pensionistico (Ape) introdotto a partire dal 2017.
Desterebbe invece molte più preoccupazioni un provvedimento che, al contrario, non rispetti il principio di equità attuariale, ma invece, limitando le penalizzazioni, favorisca di fatto chi sceglierà di pensionarsi anticipatamente, che finirà con il ricevere più di quanto non abbia versato. È possibile che questo accada, anche perché il calcolo della pensione realizzato totalmente con il metodo contributivo, che preserva l’equità attuariale, vale soltanto per coloro che hanno iniziato a lavorare dopo il 1995. Per chi ha cominciato prima di questa data, una quota della prestazione pensionistica è collegata allo stipendio degli ultimi anni (mediante il cosiddetto metodo retributivo) ed è slegata dai contributi versati. Se, dunque, tale meccanismo di calcolo della pensione si applicasse anche a coloro che decidessero di avvalersi di “quota 100” (e non si decidesse di modificare il sistema di calcolo per ripristinare la corrispondenza fra contributi versati e pensioni erogate), si tratterebbe di un provvedimento potenzialmente costoso e allo stesso tempo dannoso per la nostra economia.
Dal punto di vista del costo, chi andrebbe a finanziare l’eccesso di assegni rispetto ai contributi versati? Una parte delle risorse potrebbe arrivare dalla pressione fiscale, un’altra parte dal rinvio al futuro mediante la creazione di debito pubblico. In entrambi i casi, a pagare per quella che potremmo definire questa “quota 100 sussidiata” sarebbero le giovani generazioni, andando ad ampliare ulteriormente lo squilibrio intergenerazionale a loro sfavore che già ad oggi caratterizza il Paese, con le ben note conseguenze negative su crescita, imprenditorialità, natalità ed emigrazione netta di individui con alto livello di formazione.
Un’obiezione all’apparenza solida a questo ragionamento è che l’anticipo della pensione potrebbe favorire l’entrata nel mondo del lavoro dei giovani. L’evidenza empirica mostra, al contrario, che questo tendenzialmente non si verifica. L’occupazione degli anziani risulta essere scarsamente sostituibile con quella dei giovani, viste le caratteristiche e le abilità diverse dei due gruppi. Il lavoro, insomma, non è una torta di dimensioni fisse, ma una torta che può diventare molto più grande quando il mix di lavoratori è composto sapientemente, e, in particolare, quando si combinano giovani e anziani.
Certamente, quindi, siamo ben lontani dalla relazione 1:1 (un giovane in più assunto per ogni pensionato in più) spesso evocata dai membri del Governo. Alcuni studi recenti stimano una relazione media di 1 a 5 (un giovane in più assunto per ogni cinque pensionati in più). Altri addirittura ipotizzano che l’anticipo della pensione abbia un impatto nullo sull’occupazione giovanile, in linea con la teoria della lump of labor fallacy. Altri ancora, addirittura, riferiti ad alcuni settori specifici ad alta intensità di capitale umano, mostrano che, quando è disponibile meno forza lavoro esperta, saranno assunti anche meno giovani. Dall’analisi dei dati deduciamo che incentivare il pensionamento anticipato non aiuta, se non eventualmente in modo marginale, l’occupazione giovanile, e deprime l’occupazione complessiva, con un effetto negativo su Pil e crescita.
Il Governo aveva promesso di anticipare l’età pensionabile. Si trova ora di fronte a un bivio: farlo con poche penalizzazioni, cioè con un sussidio a chi sceglie di anticipare. Questo avrebbe conseguenze negative su crescita e sostenibilità del debito. Oppure adottare un provvedimento che rispetta l’equivalenza fra quanto versato come contributi e quanto ricevuto (in media, cioè da un individuo che vive quanto l’individuo medio della popolazione) come pensione, che consente maggiore flessibilità agli individui senza pesare, nel lungo termine, sul debito pubblico. La prima opzione forse aumenta il consenso per l’azione di governo nell’immediato. Ma certamente, vista la sua insostenibilità, non nel lungo termine. Sarà un test interessante per verificare l’orizzonte temporale delle scelte del Governo.