Pensavo che il governo Renzi con la sua annuncite cronica rappresentasse il non plus ultra per un giornalista economico: ogni giorno, una notizia garantita. Devo ricredermi, perché l’esecutivo gialloverde sta insidiando quel primato in maniera molto seria e credibile. E non parlo delle gaffes del ministro Toninelli o di altre materie degne di una trasmissione della Gialappa’s band, parlo di cose serie. La manovra economica, ad esempio, con i suoi due cardini: reddito di cittadinanza e Quota 100. E parlo di quanto avvenuto nella notte fra lunedì e martedì scorsi, quando in dieci minuti un Consiglio dei ministri convocato d’urgenza ha di fatto salvato Carige. Ve lo avevo detto che l’istituto genovese avrebbe fatto andare di traverso pane e Nutella al ministro Salvini: e così è stato.
Attenzione, però, a non compiere l’errore in cui è ovviamente incappato immediatamente Matteo Renzi, accompagnato subito dalla sempre più ristretta pletora di suoi portavoce adoranti: quanto accaduto è di una gravità enorme, un segnale d’allarme per il futuro prossimo che dovrebbe farci pensare. E parecchio. In primis, per un dato che nessuno ha evidenziato: il silenzio dell’Europa. Certo, la mossa del governo di concedere la garanzia pubblica alle nuove emissioni di bond dell’istituto genovese, prodromica di fatto a una sua possibile nazionalizzazione, è figlia legittima del commissariamento straordinario posto in essere all’inizio della scorsa settimana dalla Bce. Quindi, verrebbe da dire, Bruxelles non può che prendere atto di una decisione frutto di una scelta cautelativa di Francoforte, intesa come Eurotower. C’è però un fatto: né dalla Germania, né dai “falchi” del Nord Europa è giunto un fiato. Oltretutto, in un momento in cui i rapporti fra l’Italia e i partner dell’eurozona sono ai minimi storici, stante la disputa proprio sulla manovra conclusa da poco e dopo un iter a dir poco tortuoso.
Sanno, tutti quanti, che Carige stava saltando. In maniera disordinata, oltretutto. E che, in questo momento, non ce lo si può permettere. Perché di mine vaganti in giro per l’eurozona ce ne sono fin troppe, Deutsche Bank in testa. Per questo la Bce è intervenuta d’imperio e sempre per questo il governo ci ha messo 10 minuti a intervenire, bypassando per una volta la regola aurea della comparazione costi/benefici: cotto e mangiato, in una notte i soldi per Carige sono saltati fuori. Ed è stato giusto così: i ministri Salvini a Di Maio, loro malgrado, stanno diventando grandi alla scuola della realtà, una maestra straordinaria ma molto severa. Soprattutto per chi, finora, è campato di allarmismi, favole e promesse. Qui stava saltando una banca che è riferimento per un intero territorio: come Mps, come le banche venete. E di un territorio che, economicamente, sta già pagando un prezzo altissimo ai problemi di viabilità, infrastrutture e interconnessione legati al crollo del ponte Morandi. Sarebbe stata la fine, un colpo da ko. E ci siamo andati a un passo, perché altrimenti non si interviene in quel modo in una settimana. Prima Francoforte, poi Roma: un uno-due degno di Marvin Hagler.
E la cosa grave è che per la gran parte di cittadini/contribuenti, tutto sia accaduto come un fulmine a ciel sereno: fino a ieri, nemmeno sapevano cosa fosse Carige, a meno di non essere liguri o di non essersi recati in quella regione per le vacanze. E, ancora peggio, che nonostante la decisione gravissima presa dal governo, tutto appaia normale, tranquillo, ordinario. Business as usual, direbbero gli anglosassoni. Ma non c’è nulla di ordinario nel dover mettere in fretta e furia la garanzia statale sulle future emissioni di una banca, tantomeno nel percorso stile Mps che potrebbe portare alla sua nazionalizzazione, ancorché a tempo determinato. Perché quella garanzia servirà a rendere appetibili le obbligazioni che serviranno a finanziare quell’ennesimo aumento di capitale a cui, non più tardi di tre settimane fa, il socio di riferimento della banca ligure aveva detto no, scoperchiando il vaso di Pandora attuale.
Troveremo compratori o sarà lo Stato a doversi fare carico di correntisti, azionisti e obbligazionisti? Di fatto, a farsi carico di quella che diventerà una sua banca. «In considerazione degli esiti del recente esercizio di stress cui la banca è stata sottoposta, viene prevista la possibilità per Carige di accedere – attraverso una richiesta specifica – a una ricapitalizzazione pubblica a scopo precauzionale. Una possibilità – estrema – presa in considerazione per preservare il rispetto di tutti gli indici di patrimonializzazione anche in scenari ipotetici di particolare severità e altamente improbabili (cosiddetti scenari avversi dello stress test)». Cosa significa, al di là dei tecnicismi? In pratica, dopo l’intervento dell’Europa preoccupata per la solidità della banca a causa del mancato aumento di capitale prima di Natale, il governo è corso ai ripari per dare assicurazioni al mercato e agli investitori. Come? Con un doppio intervento.
Uno è già certo: le prossime operazioni a sostegno del patrimonio di Carige avranno l’ombrello pubblico, sotto forma di una garanzia sulle nuove emissioni. Ma se non dovesse bastare, il Governo è pronto anche a un intervento diretto: nel caso in cui i commissari straordinari di Carige lo chiedessero, lo Stato potrebbe entrare direttamente nell’azionariato. Così come è già accaduto per Mps, con l’intervento del ministero dell’Economia. E se, nonostante la garanzia statale, le condizioni di mercato nei prossimi mesi saranno tali da sconsigliare a soggetti privati, italiani o esteri, di investire nell’istituto, quale segnale arriverà all’intero comparto bancario italiano? E lo spread, visto il nesso diretto fra detenzioni bancarie di Btp e la loro stabilità nel rapporto prezzo/rendimento, il cosiddetto doom loop, come reagirà?
Certo, c’è lo scudo del reinvestimento della Bce, il quale schermerà per un po’ le fluttuazioni del nostro differenziale e opererà da deterrente contro incursioni speculative sul breve, ma per quanto? E fino a che livello, quello scudo sarà in grado di reggere alla pressione? Nonostante il percorso di riduzione di sofferenze e incagli intrapreso veda le nostre banche in condizioni decisamente migliori di qualche trimestre fa, il problema degli stessi Npl non può dirsi affatto risolto del tutto: ulteriore criticità che potrebbe pesare. In prima istanza, proprio sulle condizioni che eventuali investitori potrebbero porre ai commissari posti a capo della banca dalla Bce e al Governo italiano prima di sborsare capitale fresco e sottoscrivere obbligazioni garantite.
Signori, c’è poco da fare ironia sul fatto che Lega e M5S siano incorsi nell’ennesimo, doloroso fact-checking della loro ancora breve carriera di governo, trovandosi essi stessi costretti a salvare una banca e trovare miliardi – sotto forma di garanzie – in una notte (anzi, in pochi minuti): ora, il rischio è quello del contagio a tutto il comparto bancario. Psicologico, in primis. E strumentale da parte di speculatori e competitor europei interessati, in seconda battuta. Di fronte a noi, poi, non c’è un tripudio di cieli azzurri. Certo, la Fed ha bloccato l’aumento dei tassi e quasi certamente smetterà di drenare liquidità sul mercato, sospendendo la vendita a scadenza di Treasuries e Mbs ancora a bilancio, ma questo servirà soltanto a ristabilire un equilibrio – precario – sui mercati finanziari: e l’economia reale?
Al netto della questione Usa-Cina tutta da decifrare dopo la conclusione dei colloqui in corso a Pechino, resta il fatto che o qualcuno rimette mano alla leva monetaria o la scarsezza conclamata di liquidità sui mercati ci metterà poco a riverberarsi sul sistema bancario, di fatto operando il più classico dei credit crunch: quindi, meno denaro a imprese a famiglie. Il tutto, alla vigilia di una nuova recessione globale, come ci mostra questo grafico, contenuto nell’ultimo report di JP Morgan. Come vedete, la percentuale di possibilità che si entri in recessione entro un anno sono oltre il 60%, se si utilizza come metro di misura la performance dell’indice Standard&Poor’s 500 e i rendimenti dei bond all’ultimo livello dell’investment grade, il BBB. Ovvero, due indicatori che se rientreranno nella norma dopo gli scossoni autunnali e di inizio inverno sarà soltanto per il cambio di politica operato dalla Fed: basterà a far rientrare l’allarme e allontanare il rischio recessivo?
No, perché sia l’economia Usa che quella cinese che quella dell’eurozona sono già in rallentamento, se non in contrazione conclamata sotto quota 50, per quanto riguarda l’indice Ism. E, soprattutto, perché la Fed ferma non basta: o la Cina si rimette a stimolare pesantemente la sua economia, riattivando in parallelo l’impulso creditizio globale o entro la fine della primavera le criticità riesploderanno. E con magnitudo maggiore, oltretutto in contemporanea con il voto spartiacque delle Europee. E attenzione, se per caso la settimana prossima Westminster boccerà l’accordo per il Brexit e si avvierà il percorso dell’uscita No deal, la Fed potrà fare poco o niente e il comparto bancario europeo rischia di sbandare paurosamente.
Per questo non è tempo di polemiche, ripicche o vendette sul caso Carige: occorre vigilare e farsi trovare pronti. Perché si ballerà a breve. E solo chi ha appigli saldi riuscirà a non essere travolto. La Bce, da sola, non potrà salvare di nuovo tutti.