Il dito di Dio sulla spalla dell’uomo

Dio gioca d'anticipo. Ci ama, di un amore totale, ancor prima di sapere se noi lo ameremo o meno. Ci considera suoi figli. Perciò in tasca abbiamo un'eredità impensabile

Lui che era Re per davvero si fece simile a me, che nemmeno di me stesso sono re. Festeggiò i trent’anni così: “Prese un mantello, allacciò i suoi sandali, e disse alla madre una parola d’addio che non sarà conosciuta” (François Mauriac). Pur essendo Figlio-di-Papà – “pur essendo nella condizione di Dio” – non entrò nel mondo farfugliando: “Lei non sa chi sono io!”. Vi entrò a bassa voce, in punta di piedi, sottovoce: “non ritenne un privilegio l’essere come Dio”. Ai lacrimogeni di Satana, preferì le vesti smunte, i piedi scalzi della gente qualunque, in “una condizione di servo” (Fil 2, 6-7). Insomma, fece di tutto per non farsi riconoscere, Lui che era venuto al mondo perché tutti lo conoscessero. “Dio Potente”, l’acclamerà il coro dei fedeli, perché svuotato: leggero, dunque nella condizione più favorevole per spiccare voli verso l’alto, aiutare a spiccare voli in alta quota. La storia si alza.

E’ iniziata dal basso, dal punto più basso della geografia dei Vangeli, dagli scantinati delle acque. Iniziò laggiù in basso perché nessuno potrà diventare un grande generale se prima non è stato un semplice soldato: nessuno sarà nelle condizioni di comandare se prima non ha imparato a obbedire.

Con quel gesto di-sotto sorprese il mondo intero, fece infuriare Satana e tutti i suoi ambasciatori che erano sul punto di rinfacciargli d’essere della casta. Lui – che per trent’anni si mise in testa di farsi uomo tutto d’un pezzo, che per trent’anni obbedì andando a lezione da mamma e papà – scelse di sorprendere tutti, si prese il diritto della sorpresa. Vide il mondo tutto in affanno, sentì le sue viscere rivoltarsi, si tuffò in mezzo per rimettere in sesto il mondo dal di-dentro. Fece come se fosse Lui a essere in affanno: “Talvolta, quando si è nei guai, per uscirne – ha scritto Ken Follett – bisogna fare qualcosa di folle, di così inaspettato che il nemico resti paralizzato dalla sorpresa”.

Tutti paralizzati quella volta: l’amico Battista, la folla che era tutta sozza di lordura, la Madre che capì solo di non aver capito granché. Quel pirlone di Lucifero, fregato dall’urto di quell’umiltà inarrestabile: che l’Uomo partisse da laggiù accese in Lui il sospetto che avrebbe dovuto sudarsi, lingua a terra, la sua agognata carriera di diavolo. L’Uomo – questo capì Satana – gliela avrebbe messa dura: non sarebbe stato prevedibile come lo saranno, invece, troppi di coloro che diranno d’andarGli appresso, costi quel che costi.

Non bastasse il basso, decise di scendere ancora: Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera”. S’inginocchiò, a somigliare ancor più a colui che è schiacciato dal peccato, crogiolato nella tentazione, pancia a terra. Sdraiato per terra – come lo sarà di tanti, truffati dalle piroette del Nemico – toccò il Cielo per accendere la musica, che sarà musica per gli orecchi sordi: “Tu sei il mio Figlio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento” (Lc 3, 15-22).

“Tu-sei” è tempo immediato, asserzione d’amore: l’attesa annullata da uno sguardo. “Figlio” è complemento di identità, complimento di proprietà: non più straniero, mi appartieni, hai già un pezzo di eredità. Eppoi sei “amato”: così, di brutto, ancor prima di sapere se tu mi amerai oppure no. Troppo facile aspettare la tua risposta, gioco io d’anticipo: “Non c’è da stupirsi che non ci sia nulla di più magico della sorpresa di essere amati: è il dito di Dio sulla spalla dell’uomo” (Charles Morgan).

Qualora non bastasse per cappottarsi dall’amore, il piede è sull’acceleratore, il cuore in rampa di lancio: “In te ho posto il mio compiacimento”. Che Dio si compiaccia di me – “Son fiero di te, davvero tanto. Lo vado dicendo a tutti, mai ti mortificherò sul palcoscenico della storia” – è materia per una resa incondizionata. Andatevene, se ci riuscite.

Parole tronfie, son tutto tronfio per queste parole. “Chi pensi d’essere?” va chiedendomi la gente. “Son figlio di Dio. Ho un’eredità pazzesca in tasca!” vado rispondendo. Pensano sia matto, arrogante, smisurato. Lo dicessi per davvero, sarei il più umile. Arroganza è dire: “Sono Dio”. Essergli Figlio è la dichiarazione d’inferiorità più esaltante. Per questo Satana mi detesta: gli ricordo mio Padre.

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